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Quale politica industriale per l’Italia. La ricetta di Zecchini

Con l’attenuarsi della crisi apportata dall’epidemia ancora in corso è ripreso nel Paese il dibattito su quale “politica industriale” si dovrebbe seguire nella prospettiva di un ritorno alla crescita economica. Due autorevoli figure, il commissario straordinario per l’emergenza Covid, D. Arcuri, e la consigliera del premier, M. Mazzuccato, hanno ultimamente contribuito al dibattito con due interventi sulla stampa che in sostanza plaudono al ritorno dell’intervento statale per affrontare sfide di grande momento e tracciare un cammino per il futuro.

A dire il vero, il primo si limita a mostrare l’importanza del reshoring per rigenerare con l’aiuto statale catene produttive essenziali, che negli anni erano emigrate all’estero. Si potrebbe dire un ritorno a un approccio autarchico per garantire continuità nell’offerta di beni essenziali per la nostra società, facendo leva sulle eccellenze produttive, anche tra le piccole imprese. La seconda, quale valente economista, va al di là di questo semplice messaggio per propugnare per lo stato un ruolo di orientamento e coordinamento verso il sistema produttivo. In particolare, insiste su una strategia pubblica orientata su specifiche missioni, che definirei crinali, in cui lo stato funge da catalizzatore più che da sostenitore, usando tra l’altro gli strumenti della domanda pubblica e della finanza per le imprese. In questo compito enti pubblici quali “Invitalia e Cassa Depositi e prestiti possono svolgere un ruolo chiave di indirizzo e coordinamento tecnico”.

È difficile dissentire da queste proposizioni che hanno una evidente forza suadente per il mondo politico e per le imprese, ma possono veramente considerarsi esempi da seguire senza mettere in conto i limiti e le controindicazioni che li accompagnano e che non sono messi in evidenza? Senza dubbio il Paese deve rendersi indipendente dall’estero per beni e servizi essenziali per la sua sicurezza e sviluppo sociale, ovviamente nella misura in cui è possibile con le sue risorse umane, di sapere e finanziarie. Lo si vede già in qualche segmento per esigenze militari, per le telecomunicazioni, per la trasmissione dell’energia elettrica, per alcuni collegamenti aerei e per altri beni e servizi. Tuttavia, non si deve dimenticare che vi è un costo elevato che la società deve sostenere per raggiungere questo risultato, anche a prescindere dai limiti posti dall’Ue agli Aiuti di Stato. Se si preferisce l’offerta interna, si rinuncia a quella proveniente dall’estero, che può essere più conveniente per ragioni di prezzo, o tecnologia, o tempi di realizzazione, o per carenza di risorse all’interno. Il sistema produttivo nazionale, inoltre, ha bisogno di un mercato di grandi dimensioni e concorrenziale per poter raggiungere quelle economie di scala e di scopo che rendono conveniente una produzione, e quel mercato è prima di tutto europeo, in cui deve fronteggiare senza discriminazioni la concorrenza di altri produttori. La libertà dei commerci internazionali serve, infatti, alla specializzazione di ogni paese in quello che sa fare meglio. Se non fosse così, farebbe la fine dell’economia rumena durante il regime comunista.

Parimenti, è indubbio che il governo del Paese debba esprimere una visione di medio periodo verso cui intende indirizzare le risorse produttive e anche dotarsi di una strategia di “politica industriale”, che non vuol dire una strategia per l’industria ma una politica per l’impresa, l’imprenditorialità e l’innovazione, e quindi che abbracci entrambi manifatturiero e servizi. Ma è molto dubbio che Invitalia e Cdp siano all’altezza di un simile compito di indirizzo e coordinamento, in quanto non sono state costituite, né attrezzate per questo scopo, né vantano esperienze di successo consolidate nei decenni. A questo scopo altre strutture furono create nei decenni trascorsi, mal utilizzate, contaminate dalla politica e alla fine disciolte. Per altro verso, è bene che il governo sia consapevole che vi sono limiti all’attività di orientamento e coordinamento per non incorrere nel rischio di clamorosi fallimenti, come mostrano in Francia alcuni casi di politica industriale diretta a lanciare campioni nazionali nel campo dei computers, delle piattaforme digitali, delle telecomunicazioni, tutti casi caratterizzati da grandi investimenti e grandi insuccessi. In breve, il successo di una politica governativa di indirizzo e coordinamento verso il sistema economico si misura nella capacità di cambiare rotta e interrompere il flusso di risorse pubbliche di fronte a segnali di scarse probabilità di poter raggiungere gli obiettivi e di disimpegno dell’investitore privato.

Di fatto una “politica industriale” per “missioni” non è una novità per il Paese: la si è vista durante il governo Renzi, ad esempio con il programma “Industria 4.0”, con il precedente di “Industria 2015”, con quello “Open Fiber”, e con la partecipazione a vari programmi europei mirati a specifici comparti, come Galileo, Copernicus, le Flagship Initiatives, etc. Fortunatamente il Paese ha tratto e continua a trarre stimoli da questo approccio e vi partecipa attivamente e con cofinanziamenti. Le iniziative e i programmi di politica industriale europei influenzano ampiamente quelli italiani, e in qualche misura servono da cornice per molte delle misure prese a livello interno, mobilitandone le risorse e le istituzioni.

zecchini_libroNondimeno, il campo di una tale politica, che sia adeguata per il sistema produttivo, travalica l’approccio per “missioni”, in quanto deve affrontare numerosi nodi critici, di cui si dà ampiamente conto in un libro appena uscito per i tipi di Donzelli dal titolo Politica industriale nell’Italia dell’euro. Attraverso un’analisi dettagliata dei programmi e delle misure adottate dal 1999 in un contrappunto con le specifiche difficoltà di sviluppo incontrate nelle diverse fasi dell’economia si mettono in evidenza le principali vulnerabilità, che sembrano non intaccate a sufficienza dagli interventi messi in campo. In essenza, si è fatta molta “politica industriale” con diverse caratteristiche a seconda dei governi, ma anche con notevole continuità di approccio nel tempo, benché con alti e bassi di intensità. I nodi nondimeno sono rimasti gli stessi attraverso gli anni: carenza di infrastrutture materiali ed immateriali, burocrazia soffocante, esiguità delle dimensioni aziendali, scarsa diffusione dell’innovazione, disfunzioni negli appalti e commesse, eccessi di leggi e regolamentazioni, giustizia lenta e dispendiosa, restrizioni nella disciplina del lavoro, carente preparazione delle forze di lavoro, sicurezza e legalità sul territorio, frazionamento dei centri decisionali autonomi, soltanto per citare i principali.

Intervenire su questi punti critici con un approccio organico è indispensabile, ma vi è da chiedersi se sia fattibile nel nostro sistema-Paese. La risposta sta nel considerare i fattori pro e contro, un esercizio che tanto i governi, quanto i cittadini dovrebbero fare per dare efficacia alle loro azioni. Attualmente non sembra che il saldo tra i lati positivi e negativi sia a favore dei primi: non basta fare leva sui fattori positivi per soverchiare le remore allo sviluppo derivanti dai secondi. Sta allora ai governi dimostrare il contrario agendo efficacemente su questi ultimi.

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