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Come (non) sprecare le risorse del Recovery Fund

Si fa presto a dire Recovery Fund. Ma quando sull’Italia cominceranno a piovere miliardi sotto forma di prestiti o contributi a fondo perduto, allora servirà una macchina efficiente e ben rodata, per non sprecare risorse che possono salvare l’economia italiana finita nel burrone, nel giorno in cui la Commissione Ue afferma che a fine 2020 l’Italia lascerà sul terreno l’11,2% del Pil. Di questo, ma non solo, si è parlato nel corso del webinar Per non sprecare i fondi europei per la ripresa: dal Mes al Recovery Fund, organizzato questo pomeriggio dall’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica di Milano, diretto da Carlo Cottarelli, in collaborazione con la Rivista di politica economica. Tra i partecipanti, Giampaolo Galli, vicepresidente dell’Osservatorio, Raffaella Sadun, docente di Business Administration presso Harvard, Massimo Bordignon, membro dell’European Fiscal Board e Matteo Carlo Borsani, Direttore Affari Europei di Confindustria.

Il là ai lavori lo ha dato proprio Bordignon, il quale ha sottolineato l’indubbio sostegno arrivato dall’Europa nelle settimane terribili del lockdown. “Non possiamo non evidenziare gli strumenti messi in piedi dall’Europa. Il Sure, il Recovery Fund ma anche il supporto dato dalla Bce al nostro debito, attraverso l’acquisto su larga scala di titoli pubblici. Non dimentichiamoci che oggi la Banca centrale europea sta comprando più debito pubblico di quanto noi ne stiamo producendo”, ha spiegato l’economista. “Inoltre l’Europa ha fermato il Patto di Stabilità. Detto questo, andando nello specifico, non credo che avremo la possibilità di sprecare i fondi del Recovery Fund. Ci sarà una stretta sorveglianza da parte dell’Europa, se non offriamo un piano credibile, allora non avremo i soldi. Dunque non vedo, per ora, un problema di sprechi”.

Una visione, quella di Bordignon, condivisa anche da Borsani. Come a dire, l’Europa ha fatto molto fin qui, ora sta all’Italia fare la sua di parte. “Difficile dire oggi che l’Europa potesse fare di più. Ora, abbiamo dinnanzi a noi una sfida che può anche essere un’opportunità per il nostro Paese. Non me la sento di guardare a questa sfida senza un minimo di fiducia e di ottimismo e di fiducia, ma questo ottimismo”, ha spiegato Borsani, “deve in qualche modo partire da noi. Cominciando con l’impiegare al meglio le risorse che ci sono state concesse”.

Raffaella Sadun ha invece posto l’accento sulle condizioni dell’Italia in termini di efficienza amministrativa, propedeutica a utilizzare al meglio le risorse del Recovery Fund. “Oggi vedo un problema, ovvero la mancanza di alti standard di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni italiane. E questo pone un problema a monte, ovvero la capacità dei lavoratori di cavalcare l’imminente trasformazione cui si va inevitabilmente incontro. A sua volta questa criticità potrebbe impattare sulla riallocazione degli stessi lavoratori, perché non c’è dubbio che questa crisi innescherà una riallocazione delle figure professionali. E allora credo sia giunto il momento di porsi un problema, quello della necessità di trasformare il lavoratore italiano, per non farlo trovare impreparato dinnanzi ai cambiamenti imposti da questa crisi”.

Giampaolo Galli si è invece focalizzato sul Mes, altro tema di dibattito in questi giorni. Ora, secondo Galli l’errore che può commettere l’Italia è quello di pensare di farcela solo con le sue forze. Non è così. “In questo contesto di crisi, rinunciare al Mes sarebbe un po’ come dire di cavarsela da soli. A parte il fatto che questo suonerebbe un po’ come voler uscire dall’Europa, ma il punto è che il Mes non ci potrà chiedere un programma di aggiustamento, se non dopo che sarà finita l’epidemia e sarà tornata la normalità. Per ora le uniche condizioni che ci può imporre il Meccanismo è che i soldi siano spesi bene e non pregiudichino i conti pubblici in futuro, due cose su cui di solito l’Italia non brilla. Il Mes è un’opportunità, non c’è motivo di averne paura”.

Chiarito questo concetto, la riflessione di Galli si è allargata alla cosiddetta internalizzazione del debito, sulla falsariga del modello giapponese, dove i residenti comprano i titoli del loro Paese. “Se i residenti italiani comprassero il loro debito sarebbe una gran bella cosa, ma purtroppo questo non è questo il caso, nel senso che in Italia non è successo. Peccato perché al Mef, al dipartimento del debito pubblico ogni giorno si tenti di invogliare gli italiani a comprare debito italiano”.

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