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Recovery Fund come il Piano Marshall. Cazzola spiega a quali condizioni

corrao, Terzi, appello

“Nunc dimittis servum tuum, Domine”. È questa la preghiera che il vecchio Simeone rivolge al Signore, ringraziandolo di avergli concesso di incontrare il Messia. Chi scrive è nato durante la Seconda Guerra mondiale e – sia pure a vaghi episodi – ne ricorda il dramma della popolazione civile per assicurarsi un minimo di sicurezza e di sopravvivenza.

Con maggiore lucidità ricordo gli anni dell’immediato dopoguerra, quando la miseria era diffusa, il lavoro mancava, le famiglie erano costrette a coabitare ed era complicato mettere insieme il pranzo con la cena. Nel 1957 ero abbastanza grande per comprendere l’importanza del Trattato di Roma, stipulato dai governi di Paesi storicamente nemici che si erano combattuti fino a pochi anni prima.

La scelta che aveva reso possibile questo miracolo della politica era nello stesso tempo semplice e complicata come il classico “uovo di Colombo”: mettere a disposizione di tutti (con la CECA) quelle risorse allora strategiche del carbone e dell’acciaio che erano state contese per decenni provocando ben due guerre mondiali. L’idea era venuta ad una singolare personalità come Jean Monnet, che aveva convinto un esponente politico francese come Robert Schumann, e che è stata condivisa da statisti come Alcide De Gaspari e Konrad Adenauer che erano stati in grado di condurre i loro Paesi all’interno del perimetro della democrazia e dell’economia di mercato.

Ho vissuto la grande stagione di Jacques Delors, l’ispiratore ed il protagonista della dimensione sociale della Comunità e, negli incarichi che allora ricoprivo, ho salutato con convinzione e speranza la svolta del Trattato di Maastricht e ho preso parte alla “grande illusione” di Lisbona 2000. Ho considerata giuste e coraggiose l’adozione della moneta unica e la decisione dell’allargamento ai Paesi liberati dell’Est europeo dal giogo sovietico dopo il 1989. Ho a lungo temuto nell’ultimo decennio (dopo la crisi finanziaria del 2008 seguita da quella del debito sovrano) che quell’orizzonte sparisse dalla nostra visuale e che prevalessero i suoi avversari. Quelli esterni come l’elezione di Donald Trump negli Usa e la Brexit nel Regno Unito; le quinte colonne sovranpopuliste (caratterizzate da una rete di rapporti ambigui con la Federazione Russa) che si stavano affermando in diversi Paesi dell’Unione e che avevano vinto in Italia.

I loro obiettivi erano e rimangono l’uscita dall’euro e dall’Unione. In questi ultimi due anni la prospettiva europea è stata messa in discussione e ha rischiato di essere sconfitta e sepolta, fino a quando la vittoria di Emmanuel Macron non ha riacceso le speranze e la guida franco-tedesca non ha ritrovato il necessario spessore. Ma questa è storia di questi ultimi mesi che hanno pesato come decenni. La pandemia ha massacrato l’economia mondiale. Ma l’Unione europea – dopo un primo smarrimento in cui si è corso il rischio di fomentare un isolazionismo non solo sanitario, ma di natura politica, nella logica dell’“ognuno per sé”, perché gli “altri” sono tutti un pericolo per la nostra salute (questo è il contagio più grave che il Covd-19 ha diffuso) – si è accinta a compiere un doppio salto mortale, che è ancora in corso, ma che è orientato a proseguire.

La mole dei finanziamenti spaventa perché qualunque governo – soprattutto il nostro – non si è ancora fatto un’idea per come spenderli. La vera svolta, tuttavia, non sta nell’ammontare delle risorse (2,6mila miliardi) dislocate in bilancio poliennale e rivolte a conseguire obiettivi condivisi, non solo di effetto congiunturale, ma coerenti con una visione di futuro. Se non portasse sfortuna l’Unione potrebbe usare la definizione che l’Europa voleva dare di sé nell’arco di un decennio: diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’impiego e di una maggiore coesione sociale nel rispetto della sostenibilità ambientale. Ma l’aspetto più importante dell’accordo di Bruxelles sta proprio nelle c.d. condizionalità.

Va da sé che l’affermazione compiuta di una nuova dimensione comunitaria richieda il superamento della sovranità degli Stati nazionali e la conquista di una migliore capacità di intervento dell’Europa mettendo in conto pure momenti di vero e proprio dirigismo a livello delle sue istituzioni. Le condizionalità sono dunque la premessa di una sovranità europea che richiederà, in tempi definiti, una riforma delle istituzioni e dei loro poteri. E rappresentano la garanzia di una svolta politica effettiva.

Anche il Piano Marshall aveva delle condizioni per l’accesso ai finanziamenti. Erano condizioni legate ad indirizzi economici comuni a tutti i Paesi aderenti. Ma il terreno unificante fu quello delle alleanze e dei modelli di società.



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