A Bruxelles è in corso un negoziato cruciale per i destini dell’Unione europea e per ciascuno dei 27 Stati che vi fanno parte. Da quando è aperta la questione del Recovery Fund (gli altri pilastri del “pacchetto” – Mes sanitario, Sure, Bei – sono già definiti anche se non è chiaro l’utilizzo che i diversi Stati ne faranno), mentre procede con una scadenza ordinata e continua l’acquisto di titoli sovrani da parte della Bce. Più la discussione entra nel merito più il confronto si fa duro e appare sempre più evidente quale è la posta in gioco. Ed è su di essa che il negoziato potrà concludersi o interrompersi.
In estrema sintesi, non esiste la possibilità che il piano Marshall europeo arrivi in porto se contemporaneamente non si verifica un salto qualitativo in direzione di una “sovranità europea”. Una mole di risorse come quella che – ci auguriamo – venga messa a disposizione (come debito comune dell’Unione) non può essere spartita secondo la logica del “ognuno per sé”. Ciò vale non solo per i prestiti ma anche per le erogazioni a fondo perduto (a prescindere dal loro ammontare) la cui caratteristica è quella di non dover essere restituite, non quella di essere impiegate al libitum.
Certo nessun Paese per quanto “frugale” e virtuoso può reggersi ad arbitro delle riforme altrui. È significativo che il governo italiano insista per affidare alla Commissione europea (insistentemente spernacchiata dal governo giallo-verde, ma anche da Matteo Renzi allora “folgorante in soglio”) il coordinamento degli interventi, anziché conferirli al Consiglio dei Capi di Stato e di governo che rimane la linea Maginot della sovranità, dove ogni Stato membro ha il diritto di veto sulle decisioni più importanti. Del resto si tratta di dare contenuti e poteri a quanto è istituito da anni.
La Commissione pubblica annualmente dei rapporti nei quali vengono passati in rassegna i piani di riforme del singoli Paesi e monitorati gli effetti realizzati. Vi sono poi le riunioni tra i ministri dei diversi settori che svolgono un’attività coordinata e che si avvalgono di comitati tecnici (economico, lavoro, politiche sociali e ambiente) che svolgono periodiche peer revue dedicate ai temi di loro competenza in cui vengono esaminati e discussi (la definizione è quella del “coordinamento aperto” e della “sorveglianza multilaterale” inaugurato in occasione di Lisbona 2000) gli interventi predisposti dai singoli Stati, La riunione dei ministri economici esercita un peso enorme sulle decisioni del Consiglio. Del resto l’affermazione compiuta di una dimensione economico-sociale comunitaria non passa, a mio avviso, attraverso la difesa della sovranità degli Stati nazionali in materia di diritti sociali e del lavoro ma dalla conquista, dall’affermazione di una migliore capacità di intervento dell’Europa mettendo in conto pure momenti di vero e proprio dirigismo a livello dell’Unione e delle sue istituzioni.
Il Consiglio tenuto nella capitale portoghese seppe prendere e tenere la scena con la proclamazione solenne di trasformare l’Europa entro il 2010 nell’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’impiego e di una maggiore coesione sociale nel rispetto della sostenibilità ambientale. Tale programma era qualificato tra l’altro da precisi target per quanto riguarda i livelli di impiego da raggiungere entro quella data. In sede di monitoraggio, alcuni anni dopo, si constatò che era in corso un cammino fruttuoso verso il raggiungimento di quegli obiettivi che riguardavano soprattutto il lavoro, finché la crisi del 2008-2009 portò alle gravi difficoltà dalle quali non c’eravamo ancora liberati compiutamente prima dell’impatto con la pandemia e i suoi devastanti effetti.
Va sottolineato però che in questa occasione l’Unione, diversamente di allora, sta tentando non solo di reagire, ma di promuovere un nuovo modello di sviluppo sullo scenario internazionale. E di superare l’handicap che ha contrassegnato la sua storia: quello di essere un gigante economico ma un nano in politica. È questo limite che va superato: l’Unione (per essa la Commissione), deve acquisire poteri decisionali anche in materia di riforme, con obiettivi da conseguire e sanzioni da erogare in caso di violazione degli stessi. Com’ebbe a dire Robert Schuman, l’Europa non verrà creata tutta in una volta e secondo un unico progetto generale ma sarà costruita attraverso realizzazioni concrete dirette a creare solidarietà reali. Che fosse una profezia? Certo, l’occasione è arrivata.