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70 anni di Rashōmon, il film che cambiò il racconto del cinema

Usciva, in sordina, il 25 agosto 1950 a Tokio, il film Rashomon. Una semplice storia tra un brigante, un samurai e la sua donna, ambientata in Giappone, in un bosco, nel periodo Heian (secoli VIII-XII). Dodici mesi dopo arrivò al Festival di Venezia, contro il parere dei produttori nipponici che non avrebbero voluto inviare un film sul medioevo: il titolo rimase in originale, italianizzato in “Rasciomon”. Si aggiudicò il Leone d’Oro. Tutti gridarono al capolavoro. L’anno dopo fruttò il primo Oscar alla cinematografia del Sol Levante. Gli esegeti si sperticarono in parallelismi con la realtà pluri-soggettiva di Luigi Pirandello, con il “racconto aperto” alla Citizen Kane (Quarto potere, 1941, Orson Welles), con il cubismo di Picasso, con la teoria della relatività di Einstein.

Rashōmon, racconto filosofico sulla teoria della coesistenza di più verità e quindi di nessuna verità assoluta, svelò al mondo il cinema giapponese di un maestro ancora sconosciuto fuori dalla sua patria, Akira Kurosawa. Dopo di lui tornarono sul tema alcuni registi della nouvelle vague, come Alain Resnais, con L’anno scorso a Marienbad (1961), scritto da Robbe-Grillet e poi questi, come sceneggiatore e regista, con L’homme qui ment (1968). Ma anche Luis Buñuel, in diversi suoi film, dall’Angelo sterminatore, (1962), passando per la Via lattea (1969), sino al Fascino discreto della borghesia (1972). E, ancora, Krzyzstof Kieślowski con l’originale Il caso (1981-1987), scopiazzato dal furbo Peter Howitt in Sliding Doors (1998).

Sotto il gigante portale in legno in rovina, in una regione “devastata da guerre, morti insepolti, tifoni ed epidemie”, alla periferia di Kyoto, mentre si attende il termine di un violento temporale, un monaco e un boscaiolo, di ritorno dal posto di polizia, come testi, commentano le testimonianze ascoltate, circa l’uccisione di un samurai ad opera dell’imputato Tajōmaru. Per ripararsi dalla pioggia, si aggiunge, un terzo uomo, un ladro, strafottente e curioso. I due non capiscono come i racconti dei testimoni sul fatto di sangue, pur essendo logici, siano contraddittori.

Ecco i fatti. In un bosco il bandito Tajōmaru (la più alta prova del grande attore Toshiro Mifune, si ripeterà con I sette samurai, 1953), specialista in delitti in solitaria, cattura un samurai, che sta attraversando il bosco a piedi, con la propria moglie al seguito, seduta su un cavallo bianco, e lo immobilizza, legandolo con delle corde (il bravo Masayuki Mori: anche lui lo rivedremo in diversi film di Kurosawa, compreso I sette samurai). Poi, davanti al samurai, sul prato del bosco, Tajōmaru abusa della sua bella moglie, Masako (l’intensa Machiko Kyo), secondo alcune versioni, consenziente.

Di fronte ai poliziotti, che non vedremo mai (procedimento metonimico, se ne ricorderà François Truffaut nella “intervista” della psicologa ad Antoine, in I quattrocento colpi, 1959), Tajōmaru racconta la sua versione, che lo spettatore sa, ricordiamolo, grazie al monaco (questi è finito tra i testi, in quanto nel bosco incrociò il samurai e sua moglie, mentre rientrava al proprio convento). A tale versione, segue quella della donna (riportata sempre dal monaco) e del boscaiolo stesso (questi ha rinvenuto il corpo del samurai e ha denunciato il fatto; ma, lo sapremo poi, in maniera incompleta). Infine, ascoltiamo anche la testimonianza del samurai morto, evocato dall’aldilà, tramite una medium, sempre al posto di polizia. (È curioso come nello stesso 1950 vi sia il debutto di due “morti” che raccontano di quando erano in vita: il protagonista di Viale del tramonto di Billy Wilder, ricordato da Alessandro Zaccuri giorni fa su “Agorà” di “Avvenire”, e, appunto, il personaggio del samurai in Rashomon).

Va notato che Kurosawa consente ai quattro racconti (in realtà cinque: il boscaiolo corregge e integra la sua prima versione, con una seconda versione) di esordire concordemente: il bandito Tajōmaru aggredisce il samurai per prendersi la donna.

Poi, ognuno prosegue il proprio racconto diversamente. Il boscaiolo che, recatosi a far legna, ha rinvenuto il cadavere del samurai (prima versione), in seguito sosterrà di aver assistito al duello, poco eroico per entrambi i duellanti, in cui il samurai soccombe (seconda versione); l’imputato Tajōmaru (Mifune inventa, diretto da Kurosawa, una recitazione caleidoscopica mai vista al cinema) esalta l’aspetto eroico del suo agire; la donna il suo ruolo di vittima; il samurai morto, soffre, nell’aldilà, per il tradimento della moglie.  Curiosamente, tutti i tre implicati nel fatto di sangue si accusano della morte del samurai. Questi incluso, il quale dichiara, sempre tramite la voce della medium, di essersi suicidato per la vergogna della moglie che non solo non aveva opposto resistenza al bandito, ma addirittura, dopo l’amplesso, aveva chiesto allo stesso Tajōmaru di ucciderlo per vivere “serena” insieme al bandito.

Il film di Kurosawa segue i due racconti di Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927), Rashōmon (1915) e Nel bosco (1922), ma l’idea della verità multipla proviene dal secondo racconto (uscito, coincidenza dei fenomeni artistici, un anno dopo i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello). Da punto di vista narrativo, Kurosawa rivoluzionava la struttura del giallo: se nel procedere classico della detective story il presunto colpevole, posto di fronte a chi indaga, sudando freddo o esibendo imperturbabilità, si dichiara innocente, in Rashomon, tutti e tre, con naturalezza, sono reo-confesso.

I diversi punti di vista sono declinati tramite una sintassi filmica originale. Non abbiamo quasi mai delle soggettive dei personaggi ma sempre delle oggettive, con splendide riprese in plongée e contreplongée, avvolgenti carrelli e panoramiche nel bosco. Ma anche momenti di montaggio “corto” alla Ejzenštejn, come durante il duello tra Tajōmaru e il samurai. L’inquadratura in oggettiva, che nel cinema classico è semanticamente garanzia di obiettività, viene da Kurosawa opposta alle cinque diverse versioni del delitto. Insomma, forma versus contenuto. Seppur il tribunale condanni Tajōmaru, lo spettatore non saprà mai chi ha ucciso realmente il samurai: Kurosawa ci dice, kantianamente, che la verità è irraggiungibile, un puro noumeno, essa si manifesta solo tramite più fenomeni, tutti egualmente “veri”.

Nel finale si ode un pianto infantile; tra le rovine del portale è rinvenuto un bambino in fasce. Abbandonato dai genitori, con un sacchetto e un amuleto cuciti sui pannolini. Il ladro strappa il sacchetto e l’amuleto; il monaco prende in braccio il piccolo che piange. Il boscaiolo cerca di riavere gli oggetti del bambino dal ladro ma questi si oppone giustificando il furto con “bisogna essere egoisti per vivere”, e corre via sotto la pioggia.

Il monaco, dapprima esitante, affida poi il neonato al boscaiolo (“mia moglie già alleva sei figli, uno in più non sarà di peso”). Davanti al grande gesto d’amore del boscaiolo, il monaco, fino ad allora sfiduciato dalla cattiveria degli uomini, ritrova la fede.

Esce il sole, cessa la pioggia. In back-travelling Kurosawa accompagna il boscaiolo con il piccolo in braccio mentre, uscendo di scena, va a casa. Sullo sfondo, in campo medio, resta immobile la sagoma del monaco, sereno, tra le rovine del portale. Nonostante “guerre, tifoni ed epidemie”, la vita continua.

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