L’atteso intervento di Mario Draghi al Meeting di Rimini ha confermato le aspettative.
L’ex presidente Bce ha esplicitato una posizione in sintonia, in sostanza, con quanto detto da Papa Francesco: siamo di fronte ad un cambiamento d’epoca, non (semplicemente) ad un’epoca di cambiamento.
Questo comporta, anzitutto, nuove consapevolezze (l’austerità a oltranza è forse un dogma religioso ma non una ricetta economica funzionante e il debito sovrano non va più demonizzato a prescindere, ma occorre e occorrerà saperci convivere, anche culturalmente, nel medio-lungo periodo, con buona pace dei Paesi c.d. frugali del Nord) e nuove sfide (il denaro preso a prestito dagli Stati che si indebitano andrà speso non semplicemente bene, ma al meglio).
Quando il cambiamento diventa inevitabile (tale lo ha definito Draghi, riferendosi al presente, congruendo con un’opinione in proposito molto diffusa), occorre mettere in campo la capacità di governare la transizione verso un modello nuovo (riguardo agli assetti istituzionali, agli assetti produttivi, e perfino, entro certi limiti, agli assetti sociali) e, soprattutto, quella di elaborare un modello nuovo.
Nella transizione, le politiche del sussidio si rivelano essenziali, perché l’obiettivo, primario, è garantire la tenuta sociale (a fortiori nel quadro di una realtà, come quella attuale, fattasi ipertroficamente complessa). Ma il sussidio – in coerenza con la sua stessa natura e ragion d’essere, e per motivi di vario ordine – non può essere la soluzione su un piano di grandezza che vada oltre il brevissimo periodo. I sussidi devono servire, essenzialmente, a comprare il tempo necessario per usare la transizione al fine di sviluppare un modello nuovo.
L’Europa si attende dall’Italia – per finanziarlo con gli attesi 209 mld di euro di cui si parla da tempo – un Piano entro metà ottobre 2020, che declini quel modello nuovo. Un modello che dovrà essere – data la ragguardevole consistenza dello stock di risorse – forte, credibile, volto con decisione al futuro. Un modello, è da aggiungere, che non ci riporti semplicemente a dove eravamo, ma ci porti sensibilmente più avanti (la sfida a usare al meglio il debito è la sfida massima, ed è il caso di rammentarlo perché anche nel Recovery Fund c’è una competente di prestito, e, come osserva Tremonti, il debito, quale che ne sia la fonte o il titolo, porta sempre con sé il rischio della soggezione se non della sottomissione).
Il vice presidente della Commissione Ue Gentiloni ha osservato nei giorni scorsi, al riguardo, che “più che cento progetti per dare segnali a tutti, penso sia importante concentrarsi su sette o otto aree di intervento che trascinino il resto. Ma devono essere percorsi precisi con spese dettagliate, investimenti, regolamenti, risultati attesi, tempi previsti.”. Ha ragione.
È tempo di idee e pensiero “forti” (di pensiero lungo, per dirla con Giancarlo Giorgetti), di vision e senso della profondità, di scelte strategiche nette, quando necessario anche (apertamente) controcorrente rispetto ad assunti convenzionali un po’ troppo agée e conformismi di piccolo cabotaggio. Ed è tempo di una classe dirigente che sappia incarnare tutto questo, al di fuori di riti e liturgie ormai consumati dal tempo. Un classe dirigente che sappia farlo anche apportando spunti (e, prima ancora, modi di pensare) innovativi. In questa direzione, è il caso di guardare con ritrovata attenzione alla società civile. Tutta, senza stilemi e pregiudizi definitivamente superati dalla Storia.
Per essere concreti, a metà ottobre tutto dovrà essere gia sviluppato, tutto gia dibattuto, tutto gia deciso. C’è qualcosa di pronto? No. Siamo a buon punto? No. Occorre accelerare, in modo formidabile e attivamente, mobilitando coscienze ed energie con uno sforzo senza precedenti. Non è più tempo di aspettare fatalisticamente che le cose succedano, ma è necessario piuttosto farle succedere.
All’insegna, naturalmente, del “nuovo” vero, e non del nuovismo. Della sostanza delle cose, cioè, piuttosto che delle mode culturali effimere. “Nuovo” è tale in rapporto al presente reale, anziché alla Storia intera. Può essere che il “nuovo” oggi si risolva in una presenza più forte del pubblico nell’economia? Sì, può essere. Anche questo, può essere. Va discusso se, come e quando, ma sì, può essere.
Del resto, come dice Magatti, “superare l’individualismo della società dei consumi per entrare nella società che genera può essere una soluzione, ma non basta opporsi al vecchio per essere capaci di costruire il nuovo”. E per questo riscuotono oggi grande attenzione dottrine, come quella della generatività sociale, dove temi cruciali sono quelli della formazione, sugli investimenti nelle risorse umane, ma anche della disponibilità a cedere il potere, della capacità di far nascere spin-off (vorrei dire, ampliando il concetto, di agevolare il trasferimento tecnologico dai centri di ricerca – atenei, in primo luogo – al mondo delle startup, come sostenuto anche da Abravanel e Costamagna in un recente editoriale sul Corriere).
Si può fare? No, si deve fare. Adesso.