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Rete unica aperta ai provider. E in futuro (forse) una public company. La versione di Marattin

L’intesa sulla rete unica è figlia della privatizzazione anni Novanta che ha lasciato la rete a uno dei protagonisti del mercato delle Tlc e poi di costi legati alla duplicazione dell’infrastruttura. Non è perfetta, ma è “la migliore possibile” per Luigi Marattin, esponente di Italia Viva (è vice capogruppo alla Camera) e uno dei protagonisti delle trattative nel governo sull’accordo tra Tim-Open Fiber e Cdp.

Marattin manda un messaggio al ministro delle Attività produttive Stefano Patuanelli, che vorrebbe lasciare allo Stato la governance del nuovo soggetto: vedremo passo dopo passo, ma tenendo conto del “ruolo cruciale” dei garanti del settore (Antitrust e Agcom). La nuova società dovrebbe avere “un azionariato aperto a tutti” e potrebbe anche diventare una public company, tenendo conto comunque delle esigenze di sicurezza nazionale.

Che giudizio dà della prima intesa sulla rete unica?

In Italia la miglior cosa possibile è quasi sempre impossibile. E questo spesso accade perché le conseguenze degli errori fatti in passato non rimangono confinate lì ma si estendono fino al presente e condizionano in maniera decisiva le possibilità di costruire il futuro. È il caso, per fare solo due esempi, dell’enorme accumulazione di debito pubblico negli anni ’80 (che pregiudica – e lo farà ancora per decenni – la possibilità di spendere in deficit quando serve) e del modo in cui sono state gestite alcune privatizzazioni di servizi di rete negli anni ’90. In quella fase si scelse di privatizzare l’ex-monopolista pubblico lasciandogli l’infrastruttura di rete, che però da quel momento in poi sarebbe stata usata da diversi operatori di servizi in concorrenza tra loro. Con l’ulteriore rivoluzione tecnologica dell’ultimo decennio si sono acuite le contraddizioni derivanti dall’avere un’azienda privata (e quotata in Borsa) che è uno dei player sui servizi ma è monopolista della rete. Una contraddizione a cui si è tentato di rimediare parzialmente con l’esperienza di Open Fiber nel 2015, che tuttavia pone il rischio di subottimalità derivanti dalla duplicazione delle reti.

Insomma, ci siamo ritrovati in una situazione in cui lo status-quo (frutto di errori del passato) rendeva impossibile realizzare la situazione ideale, soprattutto in un Paese poco avvezzo ad una regolamentazione efficace ed efficiente dei servizi pubblici. Si è scelto, come purtroppo siamo costretti a fare sempre più spesso, il male minore.

Sul ruolo di Tim sembra non essere passata la linea del M5S. È così? Come siete arrivati all’accordo?

Qualche collega di maggioranza non aveva ben chiaro che non esiste la bacchetta magica per tornare indietro nel tempo e realizzare le condizioni per una società “terza” proprietaria della rete, in modo che fosse senza ombra di dubbio garantita la parità di accesso da parte dei provider di servizi, presenti e futuri. A meno di non considerare ora l’esproprio proletario tra il novero delle opzioni… Noi di Italia Viva non fuggiamo dalle responsabilità di fare le scelte difficili, ma ci chiediamo se non stiamo andando verso una situazione in cui mettiamo lo Stato dove non dovrebbe esserci (si veda l’ondata di interventismo da Alitalia alle ditte di abbigliamento) mentre non lo mettiamo nei pochi luoghi dove invece potrebbe essere utile a garantire concorrenza e parità di condizioni.

Il ministro Patuanelli sostiene  che la governance sarà “blindata”, toccherà allo Stato l’indirizzo degli investimenti. È così?

Quello che si sta intraprendendo è un percorso non breve e anche piuttosto tortuoso. Oggi si discute semplicemente di una lettera di intenti di Cdp che ci consenta di ampliare il novero delle scelte e evitare l’aggravarsi immediato delle contraddizioni che esponevo prima. Sul resto vedremo passo dopo passo come l’accordo annunciato si tradurrà in pratica. E voglio ricordare il ruolo cruciale delle autorità di regolamentazione: quelle antitrust (che dovranno dare il via libera a tutta l’operazione) e quella di settore (Agcom).

Possibile come dice il ministro che la nuova società delle reti si allarghi a 5G e data center?

Io penso innanzitutto che la nuova società delle reti debba avere un azionariato aperto a tutti i provider di servizi, se loro lo vorranno. E magari chissà, in futuro diventare anche una public company. Quello che è certo, tuttavia, è che sono in gioco anche delicate questioni di sicurezza nazionale. La rete di telecomunicazioni è ormai cruciale per molteplici questioni cruciali, su cui la nostra intelligence ci ha recentemente richiamato. Pertanto ascolterò con molta attenzione chi ha accesso a quel tipo di informazioni prima di farmi un’opinione precisa. Su certe cose non si scherza, né si improvvisa.

Il governo intende impiegare parte delle risorse del Recovery fund per la rete. È giusto e possibile a suo giudizio?

Assolutamente sì. La digitalizzazione è un asse portante del piano Next Generation EU, e per creare le condizioni per realizzarla davvero serve un massiccio investimento nelle infrastrutture di rete, oltre che garantire apertura e concorrenza agli operatori del settore.

 

 

 


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