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Di Maio abbronzato e la trappola social dei meme. La versione di Antonucci

Il meme politico in rete (in altre parole un’immagine reale associata ad un contenuto descrittivo di tipo politico-satirico, non originariamente connesso con il messaggio visivo) è un genere comunicativo oggetto di importanti studi recenti, volti a riconoscerne il carattere diffusivo ed evolutivo.

Dawkins ha rilevato la similarità del meme politico online ai geni in genetica: come questi ultimi, il meme manifesta una componente rilevante di trasmissione riferita ad un certo patrimonio (genetico o culturale) e si modifica nella trasmissione nel tempo e nello spazio connessi alla Rete, con una sorta di evoluzione continua. Così il meme politico online assolve in modo unitario ad una serie di funzioni comunicative complesse: è rivelatore di un sistema di valori politici; ha una sua trans-medialità come strumento comunicativo da diffondere su più canali; consente di connettere una idea con una modalità di narrazione; è come sostiene Stryker “un vernacolare visivo”. Tutto parte dalla capacità del meme di coniugare rilevanza di un fatto, un leader, un processo politico con la dimensione dell’umorismo, pirandellianamente intesa come “avvertimento del contrario” tra un essere e un dover essere.

La generazione di un numero pressoché illimitato di espressioni del meme del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, estremamente abbronzato, nel corso della bilaterale con l’omologo cinese Wang Yi, da parte di utenti della rete e dei social sembra aver colto questo aspetto di distacco tra l’essere e il dover essere di un ministro. Le foto di Di Maio iper-melaninico inserito in mezzo ai migranti di un barcone o con la scritta “Black lives matter” o ritratto a canestro come una star Nba sono tutte frutto della percezione, da parte del popolo dei social, che un ministro degli Esteri debba essere diafano e avvolto da aristocratico pallore, o naturale (e non è il caso del fototipo di Luigi Di Maio) o derivante da lunghe ore di preparazione degli incontri internazionali, al riparo degli ombrosi e interminabili corridoi del ministero degli Esteri. come pure notava il New York Times (che finora non aveva riservato così tanta attenzione alla figura politica ed istituzionale di Luigi Di Maio), avrebbe giovato al profilo ministeriale ed internazionale che Di Maio, oggetto di tanta memificazione, non avesse ripreso su Facebook o ripostato su Twitter ogni singola foto satirica che lo ritraeva.

Se l’intento di tale strategia comunicativa era quello di rimarcare la propria vicinanza al “popolo della rete”, anche quando si è oggetto di ironia sistematica sui social, il vaglio istituzionale su tale operato come ministro degli Esteri appare criticabile. Notava il New York Times che ironizzare sulla pelle delle persone di colore (“blackface”) è considerato molto grave in un contesto come quello delle relazioni internazionali. Negli Stati Uniti generalmente vengono richieste e presentate le dimissioni del soggetto istituzionale che sia scivolato su una pratica del genere. Un approccio coerente con il “politically correct”, caratteristico del mondo anglo-americano sulle questioni di genere, etniche, religiose, ma che spesso si scontra con l’italica, diffusissima mentalità per cui “è meglio perdere un amico che una battuta”. Figuriamoci se poi la battuta genera flusso mediatico nelle redazioni politiche e movimento sui social.

A poco sembrano valere, a fronte dell’autorevolezza del quotidiano statunitense, le difese, tutte da strapaese, di Libero e Foglio, che tentano la normalizzazione dell’argomento “blackface” riferendosi alle origini campane, e non dell’Illinois, di Luigi Di Maio. Sorprende, invece, il soccorso a favore del leader pentastellato del Giornale: il supporto a Di Maio presentato su questo quotidiano, tuttavia, finisce per essere una invettiva contro il politically correct dei media statunitensi. Non proprio una novità per un giornale già uso a normalizzare le gaffe sullo scenario internazionale di un leader quale Berlusconi. Più che un endorsement a Di Maio, una sua riconduzione all’alveo della politica italiana, rispetto all’eccezionalismo del M5S.

Tuttavia, l’atteggiamento comunicativo di Luigi Di Maio in questa circostanza appare rivelatore delle sue reali intenzioni e attitudini: meno interessato allo standing di capo della diplomazia e alla relativa attività istituzionale, che pure al Maeci procede, grazie ad una tecnostruttura bismarckiana granitica e resiliente, Di Maio appare, con questa strategia, estremamente coinvolto nella dimensione leaderistica del M5S. La questione del meme diventa quindi uno strumento, non ricercato ma piegato in questa direzione, per ricercare una centralità comunicativa per ribadire la leadership politica di Luigi Di Maio nel MoVimento. La ricerca del consenso sui social – come se quest’ultimo si traducesse in maniera diretta in consenso elettorale – è il principale movente di ogni azione comunicativa di questa estate: le foto sulla barca in Sardegna, i video su Facebook per il sì al referendum, la ripresa delle foto satiriche frutto della sua memizzazione sono tutte manovre strategiche per assicurarsi una presenza mediatica, in questi giorni di fine ferie, e un’attenzione dei social funzionali alla leadership del MoVimento.

Del resto, nessun altro attore politico del M5S, né al governo, né al Parlamento, si è mosso seguendo la medesima strategia di recupero delle prime pagine dei giornali e di protagonismo sui social, specialmente quando i social ironizzano sulla tua figura. Una strategia comunicativa decisa a massimizzare sul momento la centralità politica nel M5S di Di Maio; una scelta che, tuttavia, presto si troverà alle prese con temi di massima urgenza per il paese, con l’avvio delle questioni sospese che l’autunno porterà. E non saranno più utili i meme per recuperare consenso comunicativo.

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