Skip to main content

Quel legame pericoloso tra Pechino e Huawei nello Xinjiang. Appello di Laura Harth

Come ha scritto Francesco Bechis su Formiche.net, l’esclusione del 5G cinese in Italia non è semplice quanto lo è per il presidente statunitense Donald Trump che con un executive order può vietarne la partecipazione. Tuttavia, va notato che il governo italiano ha aspettato parecchio nel parlare in termini chiari e si trova ora ad affrontarne le conseguenze, a partire delle rassicurazioni dati al maggiore partner alleato oltreoceano ma che si dimostrano alquanto difficili da implementare nella loro concretezza.

Ci permettiamo però di aggiungere un tassello alla questione che è stata finora fin troppo ignorata. Un punto che va letto in assoluta congiuntura con tutte le legittime questioni di sicurezza poste di nuovo all’attenzione con la notizia proveniente dall’Australia circa le falle di sicurezza nel centro dati governativo a Port Moresby costruito da Huawei, con un rapporto che indica “lo sforzo deliberato di Huawei per implementare una sicurezza informatica lasciva”.

Si tratta di una questione di diritti umani fondamentali che come sempre incide anche direttamente sul prezzo commerciale che l’operatore può offrire, creando una doppia distorsione di impoverimento economico e di diritti da entrambi i lati.

I RAPPORTI DI LAWYERS FOR UYGHUR RIGHTS

I rapporti forniti da Lawyers for Uyghur Rights alla commissione britannica sul 5G, al gruppo di lavoro Onu sui diritti umani e alla commissione diritti umani del Partito conservatore in merito alla prospettata partecipazione di Huawei nella rete 5G nel Regno Unito — ora esclusa — documentano ancora una volta l’utilizzo di lavoro forzato nella catena di approvvigionamento del colosso di Shenzhen e il ruolo centrale di quest’ultimo nell’implementazione delle atroci misure di sorveglianza e dei campi di rieducazione nello Xinjiang in Cina.

I dati forniti nei rapporti — che fotografano una situazione che denunciamo da troppo tempo come Global committee for the rule of law Marco Pannella e Partito radicale — pongono una domanda fondamentale ai governi occidentali: oltre alle evidenti distorsioni di mercato e i benefici finanziari che enti cinesi hanno sui loro concorrenti occidentali, possono loro violare trattati e convenzioni internazionali sui diritti umani? La risposta è evidentemente no. Per gli obblighi internazionali e nazionali derivanti di tali strumenti stessi — contenuti come ragioni valide per l’esclusione di certe imprese anche per esempio nella direttiva europea sugli appalti pubblici del 26 febbraio 2014 —, la cui violazione non farebbe altro che erodere ulteriormente quell’ordine internazionale tanto invocato dall’Unione europea nelle sue invettive contro il presidente Trump e metterci sempre più sulla strada di quel nuovo ordine auspicata dal regime comunista di Pechino.

LE LINEE GUIDA ONU

Per quanto il regime comunista continui a rifiutare l’accesso a osservatori internazionale e indipendenti nonostante le ripetute ed esplicite richieste, alcuni delle documentazioni dai rapporti riportate di seguito, nonché le dichiarazioni da parte di Huawei, rendono evidenti quanto le pratiche di governo sostenute da imprese intensamente di regime come Huawei siano in piena violazione della Convenzione sulla schiavitù (previsti tra i crimini perseguibili anche dalla Corte penale internazionale), della dichiarazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, e dei diritti umani universali. Le linee guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani del 2011 (UNGP) stabiliscono chiari standard che devono — devono! — essere rispettati dai governi e dalle imprese per affrontare e porre rimedio alle violazioni dei diritti umani commesse nelle operazioni aziendali.

Il principi 5 prevede che “gli Stati dovrebbero esercitare una supervisione adeguata al fine di adempiere ai loro obblighi internazionali in materia di diritti umani quando stipulano contratti con, o legiferano per, imprese commerciali per fornire servizi che possono avere un impatto sul godimento dei diritti umani”. Sembra evidente che nell’assenza di una possibilità di verifica diretta imposta dal regime cinese, gli Stati occidentali tra cui l’Italia non siano capaci di esercitare tale supervisione adeguata nel legiferare sulla questione delle imprese commerciali cinesi in merito. Ma invece di abbassare la testa, tale impossibilità deve proprio rafforzare una forte e chiara posizione italiana, e far prendere in seria considerazione l’esclusione di tali imprese sulla base del crescente numero di rapporti e testimonianze internazionali su quanto sta accadendo.

I DOCUMENTI AUSTRALIANI

Tra questi il recente rapporto Uyghurs for sale dell’Australian Strategic Policy Institute, che afferma che “il governo cinese ha facilitato il trasferimento di massa di cittadini uiguri e di altre minoranze etniche dalla regione dell’estremo ovest dello Xinjiang a fabbriche in tutto il Paese, in condizioni che suggeriscono fortemente il lavoro forzato”. Un lavoro forzato che include uiguri che lavorano in fabbriche che fanno parte della catena di approvvigionamento di Huawei. Secondo stime prudenti del numero di lavoratori uiguri costretti al lavoro forzato dalle autorità cinesi, 80.000 sono stati ridotti in schiavitù in questo modo; tuttavia, come osserva il rapporto, è probabile che il numero effettivo sia significativamente più alto.

Va sottolineato che l’utilizzo (diretto o indiretto) del lavoro forzato non riguarda soltanto imprese cinesi, ma anche un numero preoccupante di aziende occidentali. Sulla base di dati disponibili negli elenchi pubblici di fornitori, rapporti dei media e fornitori dichiarati dalle fabbriche, le ricerche dell’Australian Strategic Policy Institute hanno identificato 82 società straniere e cinesi che nel 2019 hanno beneficiato direttamente o indirettamente dell’utilizzo di lavoratori uiguri al di fuori dello Xinjiang attraverso programmi di trasferimento di manodopera potenzialmente abusivo. Tra queste, Byd, Bmw, Tommy Hilfiger, Victoria’s Secret, Volkswagen, Xiaomi, Zara e ZTE.

Ma Huawei ha una mano anche più diretta negli abusi atroci dei diritti umani delle minoranze etniche nello Xinjiang. Vi sono accuse significative secondo cui le autorità cinesi stanno commettendo crimini contro l’umanità tra cui tortura, schiavitù, trasferimento forzato della popolazione, detenzione e altre privazioni gravi della libertà fisica in violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale, matrimoni e gravidanze forzati, persecuzioni su basa razziale e etnica, e la sparizione forzata delle persone, afferma l’avvocato e direttore di Lawyers for Uyghur Rights Michael Polak. Le prove degli esperti affermano che il ruolo di Huawei è parte integrante di queste violazioni delle norme del diritto internazionale.

Il rapporto Mapping China’s Technology Giants dell’Australian Strategic Policy Institute sostengono che Huawei è “profondamente coinvolta nella sorveglianza, repressione e persecuzione in corso contro gli uiguri e altre comunità di minoranze etniche musulmane nello Xinjiang […] con la fornitura di telecamere di sorveglianza, centri di comando e controllo, tecnologie di riconoscimento facciale e di targhe, laboratori di dati, capacità di fusione dell’intelligence e sistemi portatili di spiegamento rapido per le emergenze. […] il lavoro di Huawei nello Xinjiang è esteso e la società lavora direttamente con gli uffici di pubblica sicurezza del Governo cinese e le forze di polizia nella regione… Questo lavoro è riportato dai media statali cinesi, le notizie aziendali di Huawei stesso e dettagliato dalle autorità locali”.

Il coinvolgimento di Huawei nell’apparato di sicurezza della Regione autonoma dello Xinjiang è anche evidenziato nei China Cables, una serie di documenti governativi cinesi altamente classificati che sono stati ottenuti dall’International Consortium of Investigative Journalists.

LE DICHIARAZIONI CINESI

Infine, a inchiodare Huawei anche sulle sue mancate responsabilità in merito alle linee guida Onu per le imprese citate sopra sono le dichiarazioni stessi di membri governativi cinesi o di dipendenti dall’azienda stessa. Una nota per il gruppo di lavoro Onu del dottor Adrian Zenz datata 27 giugno 2020 ne riassume le prove principali e svela le menzogne espresse da Huawei stessa, la quale ancora nel gennaio 2020 ha nuovamente negato le accuse di violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, affermando che “vendiamo tecnologia in tutto il mondo. Non sappiamo come i nostri clienti scelgono di gestirla”. In precedenza, a giugno 2019, Huawei aveva affermato che la società non intrattiene rapporti commerciali diretti con i servizi di sicurezza nello Xinjiang.

Entrambe le affermazioni risultano false. Non solo la società intrattiene rapporti commerciali con i servizi di sicurezza nello Xinjiang: ha lavorato con loro per anni su soluzioni di sicurezza dedicate e su misura, e pubblicizza con orgoglio anche il modo in cui vengono gestite. Nel 2014, Huawei ha ricevuto un premio dal ministero della Pubblica sicurezza dello Xinjiang per il suo ruolo nella creazione di sistemi di sorveglianza in tutte le città. Nel 2017, un rappresentante del governo della prefettura di Kashgar, una regione a maggioranza uigura dello Xinjiang meridionale, ha descritto la collaborazione con Huawei in diverse aree, inclusa la pubblica sicurezza, come “molto intensa”. Un ex ingegnere di Huawei afferma apertamente nel suo curriculum di aver lavorato per Huawei tra luglio 2017 e settembre 2018 per il “Progetto di pubblica sicurezza e rete di collegamento video a Kashgar”. Ciò indica una collaborazione diretta e intima con le agenzie di sicurezza per un progetto di sicurezza pubblica specifico e personalizzato. Lo spiegamento della tecnologia di sorveglianza avanzata di Huawei a Kashgar è oggetto di un opuscolo dettagliato pubblicato da Huawei per pubblicizzare la sua tecnologia e servizi per le agenzie di pubblica sicurezza in tutta la Cina. Ulteriori prove della collaborazione di Huawei con le autorità di sicurezza dello Xinjiang, inclusa una collaborazione di ricerca strategica con le agenzie di pubblica sicurezza di Urumqi, sono state descritte da altri. E Fan Lixin, vicedirettore del ministero della Pubblica sicurezza dello Xinjiang, ha elogiato la collaborazione con Huawei in quanto soddisfa gli obiettivi chiave della strategia di sicurezza interna della Regione durante il 13° Piano quinquennale.

IL RUOLO DI HUAWEI

Il dottor Zenz conclude la sua nota affermando che “dobbiamo concludere che Huawei è direttamente implicato nello stato di polizia di Pechino e relative violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, e che ha mentito al pubblico su questo fatto in almeno due diverse occasioni”. In sintesi, anche soltanto dalle informazioni pubbliche facilmente rintracciabili sembra evidente che Huawei sia fortemente coinvolta nell’apparato di sicurezza nel fornire la tecnologia utilizzata nella repressione sistematica del popolo uiguro. Il monitoraggio degli uiguri attraverso la tecnologia di rintracciamento e riconoscimento facciale è stato descritto come un “gulag digitale” e ha portato o contribuito a portare alla detenzione illegale gran parte della popolazione uigura. Non vi è dubbio che le azioni del governo cinese nello Xinjiang siano contrarie alle disposizioni del diritto internazionale sul divieto alla torture e costituiscono crimini contro l’umanità. E forse anche genocidio.

Finché il regime comunista cinese sarà quindi disposto a dimostrare concretamente l’infondatezza delle crescente prove e testimonianze sui crimini contro l’umanità e l’utilizzo di lavoro forzato nei suoi confronti, accogliendo finalmente le numerosi richieste di indagini internazionali indipendenti nei suoi confronti, le sopracitate accuse da sole dovrebbero squalificare il braccio destro del regime dal fare affari sul territorio italiano. Una volta stabilito il coinvolgimento di Huawei nella schiavitù e nel lavoro forzato il suo coinvolgimento in qualsiasi tipo di attività sul suolo italiano potrebbe rappresentare una fragrante violazione degli obblighi internazionali — e quindi costituzionali — dell’Italia.


×

Iscriviti alla newsletter