“Non si tratta della solita manfrina Stato vs mercato, ma di colmare un gap, enorme”. Oscar Giannino, giornalista e saggista, grande conoscitore del mondo delle telecomunicazioni, invita ad abbandonare letture stantie della partita per la rete unica. L’accordo trovato fra Tim, Open Fiber e Cdp segna l’inizio di un percorso promettente, ma è anche il frutto di un dialogo che (per fortuna) ha permesso di evitare le crociate. Così si deve procedere, spiega Giannino a Formiche.net, nella costruzione di un modello dove (il Regno Unito insegna) è il regolatore, non lo Stato, a dettare le regole del gioco.
Giannino, e rete sia. Che idea si è fatto dell’accordo?
Più che un accordo, è stato siglato un protocollo di intesa generale. Nel governo una volontà ha prevalso su un’altra.
Non quella di Beppe Grillo.
Diciamo che chi voleva tirare una riga e dare tutto in mano a Open Fiber e Tim non è stato accontentato. Ciò che conta è che si sia arrivati qui con un percorso condiviso, a tappe. Ovviamente questo protocollo è a dir poco vago.
Si va verso un modello wholesale only?
Facile a dirsi, difficile a farsi. Il wholesale deriva da una direttiva Ue (2018/1972, art. 80, ndr) che lanciò il modello su un piano di parità per tutti gli operatori. Un conto è affermare un principio, un conto è calarlo nella realtà, specie quella italiana. Se si vuole far convergere le reti realizzate da operatori privati e da ex monopolisti pubblici verso la banda ultralarga bisogna preparare un assetto regolatore che ottemperi a quel principio di parità nel conferimento delle reti e della governance della società.
Ci sono riusciti?
Il modello wholesale non risolve il problema del caso italiano. Perché, sia pur con diversità specifiche nello sviluppo delle telco e nel peso di mercato di ciascun operatore, in realtà è un problema per tutti immaginare una rete separata dall’offerta di servizi.
Come se ne esce?
Nel Regno Unito Bt (British telecom) si pose il problema anni fa. Lo Stato non è nel capitale della società della rete. Il regolatore ne decide il sistema di remunerazione ed è in prima fila nelle nomine. Insomma, una soluzione fortemente regolata, con una separazione societaria, che non ha impedito a Bt di sviluppare negli anni una ricca rete di servizi.
E in Italia?
Dall’accordo nascerà una rete unica wholesale per la banda ultralarga. Ma è ragionevole che durante la convergenza si tenga conto del peso e dello sviluppo storico di Tim nel nostro Paese. Sappiamo che la rete garantisce all’ex monopolista il debito, la marginalità, anche se contenuta, e l’occupazione, parliamo di migliaia di dipendenti. Ovviamente, anche Open Fiber ha dei fattori di cui tener conto. D’altronde, se non avessero incontrato qualche problema di redditività non sarebbero andati oltre il primo obiettivo, che era la copertura delle aree bianche.
Chi esce vincitore dal compromesso?
A Luigi Gubitosi va dato il merito di aver intavolato una trattativa su presupposti ragionevoli, preservando integralmente la sostenibilità del business di Tim e al contempo trovando un interlocutore nel governo. La stessa prudenza va riconosciuta a Roberto Gualtieri, perfino a Vivendi. Dall’altra parte del tavolo, per fortuna, non ci sono state le crociate che pure qualcuno auspicava, dentro e fuori la maggioranza.
Adesso le tappe.
La prima ovviamente è il via libera del Cda di Tim alla costituzione di Fibercop, la nuova società con Fastweb e Kkr che gestirà una parte della rete secondaria.
Sull’offerta di Kkr inizialmente era nato un polverone.
Non si spiega perché. Per un progetto di queste dimensioni c’è bisogno di una quantità di capitale di cui né lo Stato né Tim dispongono. Per questo bisogna creare una cornice finanziaria e regolatoria propedeutica ad attirare i fondi internazionali.
L’ultima tappa: a questa rete bisogna dare un valore…
Certo, e sarà fatto con criteri di mercato, sulla base delle valutazioni dei rispettivi advisor. Questo è il punto cruciale che, una volta risolto, permetterà di procedere al conferimento della dorsale, della rete primaria. Non il problema della governance che ha tanto attirato i giornali italiani. Lì la questione è semplice: bisogna evitare che sia lo Stato a comandare, le nomine non devono provenire dal governo ma dal regolatore. Lo Stato ha altri poteri, come il golden power, che c’è ed è sacrosanto.