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Perché il blocco ai licenziamenti farà del male alle imprese. Scrive Sacconi

Continua la contrapposizione tra soluzioni conservative e stimoli dinamici nella bassa crescita della fase successiva al lockdown. Il governo, spalleggiato da sindacati prevalentemente pigri nell’esercizio della rappresentanza, sembra propendere per l’ulteriore blocco dei licenziamenti dopo la prosecuzione forzosa dei contratti a termine scaduti. Anzi, esso sembra ora orientato ad aggiungere la detassazione degli aumenti definiti dai contratti nazionali per incentivarne la sottoscrizione.

Sarebbe invece opportuna la preliminare considerazione quale termine di riferimento delle politiche pubbliche e contrattuali la moltitudine di imprese disperatamente in bilico tra la vita e la morte con le ovvie conseguenze sui loro posti di lavoro. Queste non sono state peraltro soccorse adeguatamente attraverso contributi a fondo perduto, sostegni alla liquidità e strumenti fiscali.

La generale imposizione del divieto di licenziare avrà quindi il duplice effetto di rinviare la riorganizzazione produttiva che molte sanno di dover compiere e le azioni di riqualificazione professionale per il ricollocamento dei lavoratori in esubero. Va da sé che un logica conservativa riduce anche la possibilità di creare nuove opportunità occupazionali. Nondimeno pericolosa sarebbe la scelta di incentivare i contratti nazionali. In tutti (o quasi) i perimetri contrattuali insistono imprese per le quali un aumento generalizzato potrebbe essere letale.

La detassazione di questi incrementi soddisferebbe solo l’astratta ideologia egualitaria e le burocrazie addette a negoziare. Da tempo il Presidente Bonomi ha sottolineato la diversità delle imprese nella fase di ripresa ed assegnato al contratto nazionale compiti importanti come il rafforzamento del welfare complementare e la individuazione dei modi con cui garantire il diritto-dovere all’apprendimento continuo.

Ma non la definizione, oltre a tutto in tempi di bassa inflazione, di aumenti retributivi uguali per tutti così da essere modesti per i lavoratori e onerosi per le imprese in difficoltà. La cosa strana è comunque che, in questo contesto, le parti sociali non si incontrino per tentare di offrire al governo un loro compromesso. Se è comprensibile la rinuncia a negoziare di chi pensa di avere un accesso privilegiato ai palazzi di governo, risulta davvero ingiustificabile la pigrizia degli altri.

Mai come in questo momento servirebbe infatti la supplenza dei corpi sociali più propensi a scommettere sulle libere dinamiche d’impresa e sul dialogo di prossimità tra datori e lavoratori. Questi soggetti potrebbero chiedere una generalizzata e strutturale riduzione del costo indiretto del lavoro, nonché la detassazione semplice di tutte le erogazioni aziendali e territoriali, inclusi straordinari e lavoro notturno. Come fu vigente tra il 2008 e il 2012.


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