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Rete unica, come coniugare interesse nazionale e mercato? Il jolly Cdp

Il rebus è di quelli complicati, non certo da risolvere con una penna biro sotto l’ombrellone. La partita per la rete unica in Italia si spegne e riaccende a intermittenza ormai da diversi mesi. Forse però, stavolta il meccanismo si è messo in moto una volta per tutte, senza possibilità di grippare ancora il motore. Il motivo è presto detto.

Uno dei capisaldi del Recovery Fund (209 miliardi solo per l’Italia) è la digitalizzazione dei Paesi beneficiari, dunque investimenti nella rete di ultima generazione, 5G per il mobile, fibra per il fisso (la pandemia da Covid e l’avvento dello smart working su larga scala, ovviamente, motivano tale orientamento dell’Ue). Ci sono i numeri a confermare il grande momento delle tlc: l’ultimo rapporto europeo sulla fibra di Arthur D. Little afferma che nel 2020 il mondo delle tlc in Europa genererà accordi per 60 miliardi e, di questi, 24 riguarderanno la fibra.

L’Italia è in scia a questa effervescenza industriale e cerca da tempo il salto di qualità, dotandosi di una grande infrastruttura nazionale capace di cablare a fibra e 5G l’intero Paese, dalla metropoli al borgo più sperduto. Al netto delle buone intenzioni però, finora il progetto si è costantemente impantanato a causa di una ferrata concorrenza, intrisa di politica (sì, la partita, ancor prima che industriale, è anche politica), tra i due principali player del mercato. Tim, l’ex monopolista oggi primo operatore nazionale con un azionariato variopinto ma senza un vero socio di controllo e Open Fiber, il player di Stato controllato pariteticamente da Cassa Depositi e Prestiti ed Enel.

La costante del dibattito è che al Paese serva una sola società cui affidare la gestione soprattutto lo sviluppo della rete tlc nazionale. Su questo, in questi giorni di agosto, si è registrata un’accelerazione dei partiti dentro e fuori il governo, concordi sulla necessità di dotare il Paese di una grande realtà per la rete. Il problema è semmai un altro. E cioè, a chi affidare il controllo della rete e della società che ne sarebbe a monte? Qui potrebbe cascare l’asino, perché gli interessi in gioco sono tanti e non sono solo industriali. Gli stessi partiti dalla Lega a Italia Viva, passando per il Pd, Forza Italia e ovviamente il M5S, non sembrano concordare più di tanto, dando vita a un nodo estremamente intricato.

C’è la proposta di Beppe Grillo, che due giorni fa ha rilanciato l’idea di un grande progetto aggregatore imperniato sull’ex Telecom ma con lo Stato, si legga Cassa Depositi e Prestiti, primo azionista. Di diverso avviso Forza Italia, che non vede di buon occhio una guida della società affidata a Cdp. Controllo pubblico invece che per il Pd deve necessariamente essere presupposto dell’intera operazione. Decisamente più prudente Italia Viva, che attende la convocazione allo Sviluppo Economico per fare il punto, visto che dal 16 luglio è operativo un tavolo proprio sulla questione rete unica.

Fin qui le divisioni politiche sulla governance. Poi ci sono quelle industriali. Tanto per cominciare c’è Tim, che non ha alcuna intenzione di cedere il controllo della sua infrastruttura madre, ovvero la rete che per l’ex monopolista rappresenta tra le altre cose una garanzia sul proprio debito (23,8 miliardi, secondo l’ultimo bilancio). Dunque, se società della rete sarà, la conditio sine qua non è che Tim mantenga il controllo della rete, escludendo ogni forma di guida pubblica.

A dimostrazione di tutto ciò c’è la trattativa con il fondo americano Kkr (fermata, temporaneamente, con un blitz del governo nel cda del 4 agosto, vicenda che questa testata ha trattato ampiamente) per la cessione di una quota minoritaria (37,5%) e senza governance di Fibercop, la rete secondaria (rame) di Tim, destinata poi a diventare fibra. Nelle intenzioni dei ministri Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli, autori della missiva giunta sul tavolo del board, c’era peraltro la richiesta di consentire a Cdp un ingresso in Fibercop con una partecipazione rilevante, relegando Kkr a una quota sotto il 40%. Ma Grillo sembra invece parlare di guida Cdp, ma non senza prima aver separato le attività infrastrutturale di Tim, da far confluire nella famose società della rete, da quelle dei servizi.

Insomma, per un Movimento 5 Stelle che caldeggia una guida pubblica della società della rete ma con un progetto su misura per Tim, c’è una società, proprio l’ex incumbent oggi guidato da Luigi Gubitosi, che il controllo non lo vuole cedere. Ma una soluzione c’è, anzi ci sarebbe, se solo il tema oggetto ora di narrazione, fosse portato alla giusta attenzione: la sicurezza nazionale.

La società per la rete sarà infatti proprietaria di un’infrastruttura sulla quale viaggeranno miliardi di informazioni sensibili, oltre che private. E allora c’è da porsi un problema. Non è un mistero che il primo socio unico di Tim sia la francese Vivendi (mentre un contributo all’implementazione della rete di Open Fiber stia arrivando dalla cinese Zte). Di italiano, insomma, ben poco su ambo i lati. Il jolly con cui sbrogliare la matassa, senza ledere più di tanto gli interessi di parte, però potrebbe essere proprio Cassa Depositi e Prestiti.

Ovvero, una società della rete con una presenza robusta della Cassa (che potrebbe materializzarsi già con un ingresso in Fibercop, prima ancora che nella società della rete) e questo per un duplice motivo.

Da una parte riportare nel perimetro dell’italianità un’infrastruttura che, comunque la si voglia vedere, è strategica per il Paese. Dall’altra garantire lo sviluppo degli investimenti nella rete stessa, nel quasi esclusivo interesse nazionale, con una maggiore vigilanza (il Regno Unito, per esempio, ha reti di infrastruture pubbliche ma gestite da società private).

Attenzione, nulla di autarchico, ci sono già modelli di questo tipo in Italia. Basti pensare alle grandi partecipate pubbliche, che hanno un socio forte, italiano, ma rispondono a logiche di mercato e agli stessi investitori esteri, visto che si tratta il più delle volte di società quotate.

L’operazione di per se avrebbe il suo senso industriale e inevitabili vantaggi senza dimenticare che non precluderebbe a player stranieri, Kkr in primis, un successivo ingresso nella società. Basta volerlo.

 

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