Tra le sue conseguenze nefaste l’epidemia di Covid sta rafforzando le tendenze di lungo periodo al declino demografico, che l’Istat ha evidenziato nell’ultimo bilancio della popolazione. Dal 2015 la popolazione del Paese è in calo, seguendo un movimento discendente, che proiettato nei prossimi decenni secondo uno scenario mediano (tra un trend meno sfavorevole e uno più negativo) vede la sua consistenza scendere a 59,3 milioni (-1,56%) entro il 2040.
Nell’ultimo quinquennio il decremento è dovuto interamente alla componente dei cittadini italiani (-844 mila), mentre quella straniera ha continuato a dilatarsi, pur mostrando una notevole decelerazione negli ultimi anni. Diminuzione delle nascite ed incremento dei decessi sono i responsabili della contrazione tra gli italiani, in stridente contrasto con il saldo netto costantemente positivo tra gli stranieri. I demografi spiegano la regressione demografica con fattori strutturali, rappresentati essenzialmente dal restringersi della fascia delle italiane (di origine) in grado di procreare, congiuntamente con il crescente invecchiamento demografico e il conseguente aumento dei decessi.
Il sopraggiungere dell’epidemia ha, pertanto, aggravato un andamento già inquietante per via degli squilibri indotti su più versanti, dalla sostenibilità dei sistemi sanitario e di previdenza all’occupazione e al capitale umano, per non parlare dell’identità culturale di un Paese che da secoli non ha esperienza di una società multietnica.
Anche le misure di contenimento hanno agito sulla dinamica demografica: in particolare, hanno ridotto le occasioni di incontro e di frequentazione, ritardato le cure per altre patologie, ingrandito l’insicurezza sociale, depauperato fasce della società, acuito le tensioni della convivenza, e depresso la propensione a spendere e investire. Quel che non emerge nel dibattito pubblico è come l’insieme delle tendenze demografiche e della crisi da epidemia impatti sul potenziale di crescita economica nel prossimo futuro.
Già negli anni 60 del secolo scorso, il premio Nobel per l’economia, S. Kuznets, metteva in evidenza il legame tra dinamica della popolazione e crescita economica. Quest’ultima può esprimersi in forma stilizzata come la somma delle variazioni specifiche della popolazione, della relativa quota percentuale in età di lavoro, della quota parte di quest’ultima che è occupata (tasso di occupazione), e della produttività degli occupati. In altri termini, l’aumento del Pil si può scomporre nell’aumento della popolazione, di quella parte che è in età di lavoro, di quella che è occupata e della produttività del lavoro. Se la popolazione tende a scendere gli altri fattori devono compensarne l’effetto con una variazione in senso opposto per permettere al reddito del Paese di crescere.
Un’analisi del marzo 2018 di tre economisti della Banca d’Italia, Barbiellini, Gomellini e Piselli, quantifica questi andamenti per illustrare tra l’altro la decrescita del Pil nel periodo 2011-2016. In quegli anni il calo medio annuo del tasso di occupazione (-0,48%) sommato a quelli della popolazione in età di lavoro (-0,26%) e della produttività (-0,24%), non ha trovato adeguata compensazione nell’incremento della popolazione (0,41%) riflettendosi in una caduta del Pil al ritmo medio di 0,56% per anno.
Nel triennio successivo il contributo di questi fattori alla crescita si rovescia. Il quadro economico migliora brevemente nel 2017 con la risalita della crescita a 1,6% in congiunzione con la ripresa della produttività del lavoro e del tasso di occupazione, che hanno compensato il decremento della popolazione totale e di quella in età di lavoro (tra i 15 e i 64 anni).
Ma nei due anni successivi questa compensazione si affievolisce di nuovo in quanto entrambi, produttività e tasso di occupazione decelerano in contemporanea con la contrazione demografica, riportando l’economia in una situazione di stallo contrassegnata da un insignificante +0,3% del prodotto interno nel 2019. Nell’anno in corso l’economia è precipitata in un’eccezionale recessione con produttività e occupazione in profonda caduta, mentre i decessi aumentano e tendono ad accentuarsi altri due fattori sfavorevoli per la ripresa, l’emigrazione e l’invecchiamento della società a cui si aggiunge l’inattività in età di lavoro.
L’emigrazione verso l’estero è continuata nel 2018 (ultimo anno di rilevazione dell’Istat) a ritmi crescenti (16,1%), riguardando per circa il 70% gli italiani, di cui un 30% è rappresentato da cittadini di origine straniera. Gli espatriati di origine italiana per tre quarti sono giovani e più della metà ha raggiunto un livello di istruzione medio alto, con la quota di laureati in forte ascesa (+6%). Il Paese, quindi, perde una delle componenti più vitali per il suo sviluppo, i giovani e i più istruiti. Anche se un numero di italiani con le stesse caratteristiche rientrano, il saldo rimane nettamente negativo, essendosi perduti nello scorso decennio ben 101 mila unità.
Chiaramente le misure governative per contrastare l’emorragia non sembrano avere avuto un sensibile impatto. In contropartita, l’immigrazione regolare dall’estero è servita a tamponare in parte il calo della popolazione, ma non la perdita di cervelli, e inoltre gli arrivi dall’estero sono in lenta diminuzione dal 2017, non lasciando spazio all’ottimismo circa la possibilità di un’inversione del declino della popolazione nei prossimi anni. Indubbiamente la crisi economica si riflette sull’andamento demografico, che a sua volta incide sulle possibilità di ripresa dell’economia, in un circolo vizioso che si può spezzare solamente con uno shock che al tempo stesso dia una spinta notevole tanto all’occupazione e alla propensione degli inattivi a inserirsi nel mondo del lavoro, quanto alla produttività del lavoro.
Da quale fonte può provenire questa spinta? In primo luogo, dal governo che deve assumersi il compito di avviare un circolo virtuoso con misure che stimolino efficacemente la natalità, la partecipazione al lavoro, l’istruzione secondaria e terziaria, la formazione professionale e l’attrazione di forze di lavoro qualificate dall’estero. Ad esempio, per sollecitare la componente femminile ad entrare maggiormente nel mondo del lavoro non bastano le programmate sovvenzioni per l’assistenza all’infanzia e i premi di natalità.
Occorre altresì maggior flessibilità nelle forme e nei tempi di lavoro insieme a una fiscalità preferenziale per chi lavora, senza scaricare sulle imprese gli oneri. Altrettanta flessibilità si richiede per frenare la fuga dal lavoro in età in cui si può ancora fornire un contributo per accrescere il benessere del Paese. Meno assistenzialismo e più stimoli a una società che si attivi per generare ricchezza per sé e per la comunità nazionale. Ricompensare maggiormente le prestazioni qualificate, particolarmente quelle più ricercate dalla nuova economia, attraverso un uso differenziato di imposte, contributi sociali e sussidi. Parimenti, remunerare meglio il rischio di impresa e sostenere l’innovazione imprenditoriale.
L’altra grande fonte di impulso alla crescita può derivare dall’avanzamento di scienza e tecnologia, di cui è già evidente il grande potenziale nei paesi più avanzati nel loro sviluppo e adozione. La digitalizzazione può far compiere un salto di produttività sempre che si riorganizzino le imprese, si riducano i vincoli nell’impiego del lavoro, si investa seriamente nel formare nelle nuove competenze e nelle infrastrutture, e si restringano i gravami di burocrazia ed istituzioni inefficienti e costose. In tempi di crisi, per uscirne è necessario saper governare l’inevitabile cambiamento con coraggio e determinazione.