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Ecco cosa serve per cambiare (davvero) la medicina di base. L’analisi di Balducci

Sul fatto che molte delle vittime provocate dalla pandemia di Covid-19 nella fase iniziale siano imputabili alla debolezza della nostra medicina territoriale, sopra tutto in Lombardia, sembra esserci un accordo generalizzato. Come pure sembra esserci un accordo generalizzato sul fatto che la buona performance dimostrata dalla sanità tedesca sia da ricondurre alla presenza in Germania di una robusta sanità territoriale.

La debolezza della sanità territoriale in Italia, del resto, era stata percepita a livello governativo già da marzo quando, con apposito decreto ministeriale, venivano istituite le Unità Speciali Di Continuità Assistenziali (Usca), sorta di squadre di pronto intervento, di commandos di stile militare, chiamate a tappare i buchi nel territorio.
Ora che la tempesta mediatica dovuta alla tornata delle elezioni regionali e comunali è dietro le spalle il problema della necessità di rafforzare la nostra medicina territoriale è ai primi punti dell’agenda politica. Il problema si incrocia, più o meno consapevolmente, con il dibattito Mes sì /Mes no. Il fatto è che per rafforzare la medicina territoriale in Italia non servono risorse aggiuntive ma risulta impellente agire sul meccanismo istituzionale e modificarlo.

In Germania, ma anche in Olanda e in Svezia, la robustezza della medicina territoriale non si basa su chissà quali strutture tecnologiche megagalattiche. In questi Paesi la forza della medicina territoriale è rappresentata dalla rete dei medici di famiglia, quelli che, a partire dalla riforma realizzata con la legge 833 del 1978, in Italia vengono definiti come “medici di base”. Orbene la rete dei nostri medici di base è debolissima. Ma non è debolissima perché i medici di base sono pochi o perché non sono dotati di strutture adeguate. I nostri medici di base sono debolissimi per il ruolo in cui sono confinati dall’assetto istituzionale della nostra sanità.

Tutti noi cittadini sappiamo bene che il nostro medico di base non ha niente a che vedere con il medico di famiglia antecedente alla L. 833/1978. Il medico di base attuale è una sorta d burocrate passacarte. Rari sono i medici di base che oggi visitano i loro pazienti. Il medico di base, in buona sostanza, richiede, su apposito modulo regionale, le visite specialistiche e gli esami diagnostici.

Lo specialista, da parte sua, non può prescrivere direttamente la terapia ma deve richiedere al medico di base che la prescriva. Quindi, il paziente, dopo essere stato visitato dallo specialista, deve ritornare dal suo medico di base affinché gli trascriva su apposito formulario regionale la terapia prescritta dallo specialista. Molto spesso il paziente richiede al medico di base la prescrizione telefonicamente e, poi, passa a ritirare la prescrizione dalla segretaria del medico. La crisi causata dal Covid 19 ha determinato un irrigidimento di questo schema: ora la prescrizione, sempre richiesta per telefono, non deve più essere ritirata dal paziente dalla segretaria del medico perché il medico di base può inoltrarla in via telematica (il medico inserisce su una piattaforma nazionale la prescrizione e invia il codice della prescrizione via sms al cellulare del paziente; questi può recarsi presso qualunque farmacia dove riceverà il medicinale presentando il codice e il suo badge sanitario).

In Germania, ma anche in Svizzera, in Olanda etc. il medico di famiglia è uso visitare e prescrivere in prima persona la terapia. Quando suggerisce al paziente di recarsi da uno specialista non si vede ritornare il paziente affinché gli trascriva sui formulario regionale la terapia prescritta dallo specialista. È cura dello specialista chiamare telefonicamente il medico generalista per informarlo della sua diagnosi. Qui va accennato anche al fatto che in varie regioni, durante la prima fase della pandemia, le autorità regionali (aziende sanitarie territoriali ast, o aziende sanitarie locali asl, a seconda delle regioni) hanno spinto il medico di base a non andare a visitare a domicilio chi, dai sintomi dichiarati, poteva essere affetto dal Covid 19.

La differenza tra sistema italiano e sistema tedesco può essere riassunta come segue: da noi il medico di base è un passacarte (in effetti dedica la stragrande maggioranza del suo tempo-lavoro a compilare carte) mentre il medico di famiglia tedesco è un medico generalista, dotato di una professionalità ben definita, appunto quella di avere una visione generale e non di dettaglio (come quella dello specialista).

Per potenziare la nostra medicina territoriale bisogna modificare il ruolo del medico di famiglia riportandolo ad un ruolo professionale liberandolo di incombenze innaturali e inutili. Nel dibattito che sta lentamente montando su questo tema questa consapevolezza, purtroppo, non emerge. Emerge invece la necessità di maggiori risorse per potenziare le strutture periferiche. Riemerge il progetto della ministra Turco che alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo voleva creare a livello periferico una rete di strutture che aveva poeticamente definite “case della salute”, sorta di poliambulatori operativi 24 ore su 24 sette giorni la settimana. L’idea della ministra Turco fu poi ripresa dal governatore della Toscana Enrico Rossi. Sia dell’aspirazione della ministra Turco sia di quella del governatore Rossi non si fece nulla per mancanza di risorse. Temo che ora il Mes possa essere attivato per realizzare queste “case della salute”. Se così fosse (Dio non voglia) ci sono due caveat che vanno immediatamente lanciati.

Innanzi tutto va tenuto presente che una cosa sono le spese di investimento (quelle che sarebbero necessarie per creare questa rete di “case della salute”) ed una cosa sono i costi di funzionamento. Il Mes può finanziare le spese di investimento, cioè spese una tantum, non può finanziare le spese correnti di funzionamento. L’osservazione può sembrare banale al lettore. Il fatto è che tale differenza non fa parte del bagaglio culturale dei nostri politici e dei nostri amministratori. L’art 200 e l’art 201 del testo unico sugli enti locali (Dlgs 267 del 2000) impongono agli enti locali (non alle regioni e non alle strutture sanitarie) di valutare il costo di funzionamento delle spese di investimento.

I revisori dei conti degli enti locali sanno bene quanto è difficile far rispettare questi obblighi (che, prima che di legge, dovrebbero essere di buon senso). Il secondo caveat riguarda il fatto che queste immaginifiche “case della salute” finirebbero con l’eliminare del tutto ogni liberta per il paziente di scegliersi lo specialista da cui farsi curare. Già oggi il paziente si trova di fronte ad una alternativa: non pagare lo specialista ma non poterlo scegliere e, per di più, vedersi ogni volta visitato da uno specialista diverso ogni volta che deve ritornare a farsi controllare oppure pagarsi tutto di tasca propria. Con buona pace dei principi su cui si basa la legge 833/1978 la nostra sanità sarà sempre di più una sanità a due velocità: a scartamento ridotto per chi non si può permettere di pagarsi la cura e a pagamento per chi aspira ad un trattamento sanitario decoroso.

Rafforzare la medicina territoriale dovrebbe comportare il rinforzo del ruolo del medico di famiglia, eliminando tutta una serie di attività burocratiche a carico del medico di famiglia che non hanno nessuna funzione sanitaria ma solo una funzione di controllo burocratico. Paradossalmente il potenziamento della medicina del territorio dovrebbe comportare una riduzione di costi. C’è da augurasi che i governatori appena eletti o rieletti abbiano il coraggio politico di prendere decisioni contrarie al modello sin qui dominante, modello in cui l’offerta prevale sulla domanda ed in cui il medico di base viene concepito come uno smistatore di pazienti, vuoi verso lo specialista vuoi all’ospedale e non come un professionista a tutto tondo.



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