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La roadmap per la rete unica e il ruolo di Cdp. L’analisi di Sebastiano Barbanti

Sono ormai 5 anni che le cronache dei principali giornali di settore riportano periodicamente articoli in merito alla fusione tra Tim ed Open Fiber ed alla creazione della rete unica. Lungi dal voler ricordare chi sono e cosa facciano le compagnie, dal voler ripercorrere il piano banda ultralarga e dai vantaggi derivanti dall’assenza di competizione infrastrutturale, vorrei soffermarmi sul merito e sulle conseguenze dell’eventuale fusione.

Nel tardo pomeriggio di ieri Tim e Cdp hanno firmato i Mou che delineano un percorso per la costituzione della società che dovrebbe creare la rete unica. Benché si parli di chiusura dell’operazione entro marzo 2021 la strada appare ancora incerta e lunga. Tim ha separato la rete ma vuole mantenerne il controllo configurandosi così come operatore verticalmente integrato nonostante le Authority si siano già espresse contro una siffatta soluzione ed il parere delle Authority, che non avviene in via preventiva, è ovviamente vincolante. Ricordiamo, inoltre, che nel primo trimestre 2020 Tim è stata sanzionata 4 volte da differenti Authorities per un totale di 264 milioni.

Appurata la costituzione di Fibercop, ci troviamo quindi davanti ad un rischio di duplicazione dell’infrastruttura nel caso in cui le Authority si esprimano sfavorevolmente? Se invece arriverà il benestare delle Authority, occorrerà definire dei seri, puntuali e misurabili vincoli che garantiscano la reale indipendenza e terzietà nella gestione della rete unica: più che i cda, sono i manager a gestire quotidianamente le aziende e la vera expertise nel campo la detiene Tim. Si porrebbe, inoltre, un problema della rete in fibra nelle aree bianche che appartengono allo Stato, di cui Open Fiber è solo concessionario, e per le quali le Authority potrebbero chiedere uno scorporo anche per un eventuale configurarsi di aiuti di Stato.

Questo problema ci porta ad un altro aspetto: le azioni finora intraprese da tutte le parti e le generiche informazioni diffuse riguardano operazioni meramente societarie e finanziarie, nessuno si è soffermato seriamente sulla questione tecnologica. Sembra superfluo ricordare che la fibra rappresenta l’autostrada del terzo millennio, è il fattore abilitante di servizi e attività di produzione tipici della Gigabit Society ed il lockdown ci ha dato la prova della sua importanza, eppure, all’interno della Ue, ci collochiamo al 25° posto per la sua diffusione.

Abbiamo quindi bisogno di una rete “future-proof”, implementabile solo attraverso un grande investimento greenfield di lungo termine e l’unica infrastruttura che risponde a questa esigenza è la configurazione Ftth, che realizza Open Fiber, non Tim che sta invece ha adottato, per ovvi motivi di legacy, la FTTC. Le due infrastrutture di rete non sono conciliabili tra loro, come si farà quindi a razionalizzare il tutto dopo la fusione? Quale sarà il modello che si vuole adottare? E come sarà possibile dismettere la rete in rame, ovvero quella di Tim che però costituisce gli asset su cui poggiano i suoi debiti finanziari? In altre parole, tenuto conto che Open Fiber è operatore che è stato in grado in tre anni di stendere più fibra di quanta ne abbia stesa Tim nell’arco degli ultimi 20 anni, quale garanzia si potrà avere che la nuova entità prosegua il lavoro di cablaggio dell’Italia intera (ivi comprese le aree C e D a fallimento di mercato) e che poi apra realmente senza barriere anticoncorrenziali l’infrastruttura agli altri operatori sul mercato?

Queste domande sono relative a dinamiche dettate non dall’etica, bensì dalla legge di mercato: Open Fiber ha il compito di realizzare e mettere in servizio del Paese un’infrastruttura a prova di futuro; Tim deve invece rendere conto ed operare sulla base degli interessi dei suoi azionisti, che non sempre coincidono con quelli a lungo termine del bene dello Stato. Ed è in questo quadro che la presenza di Cdp deve andare ben oltre il ruolo di garante prendendo il governo reale della strategia e dettando le linee di condotta su investimenti, tipologia di infrastruttura, neutralità, indipendenza ed apertura alla concorrenza.

Le azioni di mercato messe in campo Tim ed OpenFiber, si riverberano sui processi di costruzione della rete, nel passaggio alla nuova connettività da parte degli utenti (in questa quota di mercato risiede il vero valore aggiunto di Tim) ed hanno comportato la duplicazione, in zone ancora molto limitate, dell’infrastruttura. In questo matrimonio che, salvo indicazioni diverse da parte delle Authority, sembra essere avviato, sarebbe opportuno che Cdp, proprio per il suo ruolo, tenga conto della possibilità di disciplinare delle condizioni che coniugano la ragione economica alla ragion di Stato.

Si faccia in modo che la dote sia rappresentata da un chiaro, esplicito e ben definito obiettivo di infrastrutturazione in Ftth al quale venga inequivocabilmente ricondotto il sistema di retribuzione variabile, che deve rappresentare la parte preponderante dell’intera retribuzione annua, per il management.

Per nessun motivo si interrompa la realizzazione dell’infrastruttura da parte di OpenFiber: l’Italia non può permettersi nessun ulteriore ritardo se vuole crescere e affrontare le sfide del futuro.

Qualora AccessCo (questo per il momento il nome della società derivante dalla fusione tra FiberCop e OpenFiber) sia sanzionata da Agcm e Agcom per comportamenti scorretti discriminatori a vantaggio di Tim, si preveda una penalizzazione nella governance, anche attraverso patti parasociali.

Laddove venga realizzata la rete unica, si proceda al decommissioning della vecchia rete in rame magari prevedendo una remunerazione degli stranded costs.

Con questi accorgimenti eviteremmo di ripetere gli stessi errori e ascoltare le stesse critiche che anni fa furono commessi ed esposte nell’operazione di privatizzazione di Telecom, permettendo di definire una chiara roadmap di sviluppo del processo di infrastrutturazione ed allo stesso tempo scongiurando i rischi di indebolimento delle dinamiche concorrenziali tra gli operatori sul mercato ed il ritorno ad un anacronistico ed inefficace sistema di monopolio.

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