Si è improvvisamente acceso il dibattito sul futuro prossimo del porto di Taranto alla luce della possibilità che aziende che già vi operano, o che si accingerebbero ad insediarvisi, siano in joint-venture con capitali cinesi o da essi controllate.
Premesso che chi scrive (come tanti altri) valuta con favore l’attenzione che autorevoli organi di informazione stanno prestando allo scalo ionico – che resta uno dei porti più importanti del Mediterraneo, nonostante la pesante flessione dei traffici di minerali ferrosi e di coils a causa delle vicende dell’Ilva – è opportuno valutare con equilibrio ciò che sta accadendo, attenendosi ai fatti e senza indulgere a inutili dietrologie.
Com’è noto, lo scorso anno la società turca Yilport ha ottenuto dall’Autorità di sistema portuale del Mar Ionio la concessione per 49 anni del molo polisettoriale che qualche anno prima aveva lasciato la società Tct, controllata dalla Evergreen società di Taiwan.
Per lungo tempo quella vastissima area – la cui costruzione (ma qualcuno se lo ricorda ancora?) era stata sollecitata dai sindacati e dalle istituzioni locali nell’ambito della “vertenza Taranto” a metà degli anni ’70 del secolo scorso, una volta terminati i lavori di ‘raddoppio’ del Siderurgico – è rimasta inutilizzata con le sue imponenti gru da banchina, fin quando non si è affacciata la compagnia turca che, dopo una laboriosa procedura di accreditamento e valutazione del piano industriale da parte dell’Authority, ha dato inizio alle sue attività dopo aver costituito la SCCT (San Cataldo Container Taranto).
È ripartita così la movimentazione via mare di container – sia pure (causa crisi economica da pandemia) con ordini di grandezza per i prossimi tre anni inferiori a quanto previsto inizialmente e con un minor numero di occupati – contribuendo comunque al rilancio dello scalo che movimenta anche greggio per la raffineria dell’Eni, grandi pale eoliche della Vestas e altre rinfuse solide. Ora la Yilport – secondo un’informativa dell’Aise, il nostro servizio di intelligence estero – sarebbe socia della compagnia statale cinese Cosco, un big player mondiale dello stesso comparto, che compete con colossi internazionali come Maersk, Evergreen ed MSC, una società quest’ultima dell’imprenditore sorrentino Gianluigi Aponte che, a sua volta, ha rilanciato il porto di Gioia Tauro.
Ora alcuni ambienti politici ed istituzionali del nostro Paese guardano con preoccupazione a questa alleanza fra gli operatori turchi e quelli cinesi che è accresciuta dalla notizia che, sempre nel porto di Taranto sull’ex yard Belleli, potrebbe localizzarsi per costruirvi grandi yacht l’azienda del gruppo romagnolo Ferretti, controllato all’85% dai Cinesi del Wechai Group.
Il timore è che la presenza di questi capitali in aziende già operanti su Taranto, o in procinto di giungervi, possa rafforzare sempre di più nell’Italia e nell’Europa centro-occidentale dell’Alleanza atlantica la penetrazione geopolitica della Repubblica cinese che, grazie anche al suo progetto planetario e ai correlati investimenti della ‘Via della seta’ – potenzialmente destinabili anche all’area ionica – perseguirebbe fini non esclusivamente economici. Si è anche evidenziato come l’attività della Yilport avvenga a Taranto su un molo a dieci miglia dalla grande base navale della Nato in Mar grande.
Sono fondati questi timori ? Diciamo che potremmo anche considerarli legittimi, ma, a ben vedere, gli investimenti di cui si parla sono partecipazioni anche di controllo in società che si localizzano nel capoluogo ionico, ma che non hanno natura e finalità diverse da quelle che vedono capitali cinesi presenti in tante altre grandi aziende italiane: si pensi ad Unicredit, seconda banca nazionale, alla Pirelli, al gruppo siderurgico Duferco, all’Inter e a tante altre società.
Sono investimenti questi che, come scrive e teme qualcuno, potrebbero porre in discussione in futuro persino l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza Atlantica, votata a maggioranza nel 1949 nel corso di (anche allora) infuocate sedute del nostro Parlamento?
Ma, ci chiediamo, ciò per caso è avvenuto sinora? O ci sono forti avvisaglie occulte o palesi che ciò possa accadere? Ma il Porto del Pireo ad Atene, capitale della Grecia – che è anch’essa un Paese della Nato – non è stato dato in concessione ai Cinesi della stessa Cosco? E nel porto italiano di Vado ligure non c’è già da tempo una massiccia presenza cinese? E dobbiamo forse ricordare gli altri porti di Paesi della Nato che vedono anch’essi una massiccia partecipazione di capitali cinesi? Sì, ricordiamoli: Marsiglia, Valencia, Bilbao, Saint Nazaire, Le Havre, Dunkerque, Anversa, Rotterdam, Zeebrugge. Tanti porti, come si può osservare, sia nel Mediterraneo che nell’Atlantico.
Vi sono state forse dichiarazioni di fuoriuscita prossima o remota dei Paesi di quelle aree portuali dalla Nato? Ci pare proprio di no, e allora non sono eccessivi i timori manifestati da coloro che (forse) vorrebbero un’Italia priva di dinamismo nella sua politica economica ed estera? Un’Italia – è bene ribadirlo con chiarezza – che ha scelto di collocarsi saldamente nell’Alleanza Atlantica con tutti i costi e gli obblighi militari e politici che ne derivano, ma che è capace anche – erede della indimenticata tradizione di Marco Polo – di dialogare con le istituzioni e il popolo del più grande Paese al mondo per numero di abitanti e seconda economia planetaria in costante espansione.
Un dialogo peraltro che il popolo pugliese e le sue istituzioni civili e religiose vogliono tenacemente perseguire nell’interesse delle nostre comunità a 360 gradi, da Oriente ad Occidente, eredi come siamo (e vogliamo restare) della tradizione sovranazionale nicolaiana e delle feconde intuizioni di Federico II, il Puer Apuliae, l’affascinante e colto imperatore svevo che sapeva dialogare con la raffinata cultura araba.
Allora ricordiamoceli di tanto in tanto tali momenti della nostra storia regionale che non sono solo nostri, ma appartengono alla grande storia nazionale che vogliamo (e dobbiamo) consegnare alle giovani generazioni.