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I Draghi del Presidente (Conte). L’analisi di Arditti

In un certo senso va anche compreso e, almeno in parte, giustificato il presidente del Consiglio.
Nella tarda primavera di due anni fa si ritrova a guidare un governo frutto di un’alleanza figlia delle scelte elettorali degli italiani ma del tutto avulsa rispetto al contesto politico internazionale, con il capo del partito più votato (nonché potentissimo ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico) che dialoga con i Gilet Gialli e il capo dell’altro partito (nonché potentissimo ministro dell’Interno) che va a braccetto con la destra nemica mortale di Macron e Merkel.

Gli tocca quindi fare una fatica immensa per diventare interlocutore credibile, dentro e fuori i confini nazionali. Poi nella primavera di quest’anno gli tocca fronteggiare (con un’altra maggioranza, perché nel frattempo c’è stata una crisi di governo) la pandemia, esperienza di governo comunque durissima, ancorché formativa.

Al termine di questo biennio Giuseppe Conte è però un’altra persona rispetto al momento in cui ha varcato per la prima volta il portone di Palazzo Chigi. È infatti politicamente assai più solido, è internazionalmente più conosciuto (si pensi al tweet con “Giuseppi” di Donald Trump), è più padrone della scena quando si trova in pubblico o davanti ai media.

Insomma il Presidente Conte è oggi più forte di quando ha cominciato, molto più forte.
Ecco perché un po’ ne comprendiamo il fastidio ogni volta che qualcuno gli fa il nome di Draghi, cioè dell’italiano (istituzionalmente parlando) più importante del mondo.

Detto ciò appare del tutto fuori luogo il ragionamento svolto ieri dal premier sull’ex presidente della Bce, anche perché (ormai l’abbiamo imparato) Conte non parla a caso. È cioè sorprendente l’affermazione secondo la quale il nostro capo del governo avrebbe sondato Draghi per ipotizzarne un ruolo di guida della Ue ed il fatto che lui ieri abbia rievocato l’episodio (ricevendo una generica indisponibilità per “stanchezza” dall’interessato) finisce per confermare tutto il fastidio che gli provoca la pronuncia di quel nome.

Ciò si dimostra per due semplici motivi, certamente ben noti allo stesso Conte e quindi capaci di smontare il senso del suo ragionamento (e della proposta a Draghi). Punto primo: non sta né in cielo né in terra che il capo della Banca Centrale Europea si traferisca alla fine del mandato alla guida dell’Unione.

Non è politicamente accettabile, non è istituzionalmente sensato, non è minimamente nei piani dei due più influenti paesi europei, cioè Francia e Germania. Quindi quell’ipotesi non è mai stata nell’agenda vera dello scorso anno.

Punto secondo: l’Europa sceglie Ursula von der Leyen all’inizio dell’estate 2019, quando in Italia c’è il governo giallo-verde. Pensare che possa andare al nostro Paese la guida dell’Unione in costanza dell’esecutivo meno europeista della storia della Repubblica è fuori da ogni logica, quand’anche si voglia considerare l’assoluta specificità del nome di Mario Draghi, non certo assimilabile a questa o quella forza politica.

Insomma Conte ha scelto il modo peggiore per fare un complimento a Draghi, perché ha messo in campo uno scenario talmente poco credibile da risultare assai poco lusinghiero.
Finendo così per ottenere un solo granitico risultato: confermare nella testa di tutti noi la sensazione che il solo pronunciare il nome di Draghi lo fa solennemente incazzare.



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