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Così i giganti dei microchip mettono Huawei (e la Cina) all’angolo

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Il countdown alla fine è terminato, dopo poco più di tre mesi dall’annuncio delle restrizioni imposte dall’amministrazione Trump. La direttiva è ormai nota: l’impossibilità per compagnie nazionali ed estere, previa autorizzazione tramite licenza speciale, di vendere equipaggiamento o software che abbia attinto da tecnologie americane ad aziende cinesi entrate nella blacklist.

Obiettivo è la compagnia leader nel settore delle telecomunicazioni e maggior produttrice mondiale di smartphone, Huawei. Lo strumento questa volta è Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (Tsmc), compagnia ormai nell’olimpo dei semiconduttori e prima fornitrice globale con il 51% delle vendite nel mercato dei chip.

Infatti, da ieri Tsmc, in ossequio alle restrizioni americane, non potrà più vendere microchip al colosso di Shenzhen. I semiconduttori sono componenti ormai essenziali per l’elettronica moderna e cruciali per lo sviluppo di un’ampia gamma di tecnologie. Su di essi la Cina è fortemente dipendente dalle forniture estere, tanto sul lato manifatturiero quanto su quello dello sviluppo dei software e del design (seppur su questo fronte la divisione di Huawei, HiSilicon, abbia assicurato una certa dose di autonomia). Inoltre, le opzioni alternative sul mercato globale sono assai ristrette in un contesto sempre più in balia delle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina nella ‘nuova guerra fredda’ tecnologica.

La drastica cesura che questa mossa comporta sulla geografia delle catene del valore in uno dei settori più integrati al mondo avrà riverberi su entrambe le sponde: una partita senza vincitori come ammonisce China Daily – ciò potrà tradursi in un parziale ridimensionamento dei margini di profitto delle aziende americane che vendono equipaggiamento o licenze, così come la chiusura di un mercato estremamente proficuo per Tsmc. Resta il fatto che la pressione, con una prolungata strozzatura delle sue supply chain, sarà enorme sul business plan di Huawei.

UNA HEDGING STRATEGY?

Tra le soluzioni a breve termine, Huawei aveva già iniziato lo scorso giugno ad accumulare riserve di microchip in prospettiva delle restrizioni. Nel frattempo, Pechino mira a sovvenzionare l’industria nazionale dei semiconduttori con il recente lancio di un nuovo piano di investimenti per bilanciare l’offensiva americana. Secondo Bloomberg, la Cina punta a preparare la cosiddetta terza-generazione di semiconduttori entro il 2025, grazie a una serie di iniziative che diventeranno parte integrante del quattordicesimo piano quinquennale in discussione ad ottobre prossimo. Si tratta di una strategia economica da 1,4 trilioni di dollari da investire in frontiere tecnologiche come l’AI e i wireless network per il mercato domestico.

“La leadership cinese ha realizzato che i semiconduttori sono alla base di tutte le tecnologie avanzate e che non sia possibile dipendere ancora a lungo dai rifornitori americani”, ha commentato Dan Wang, analista di Gavekal Dragonomics. “Alla luce delle restrizioni americane sull’accesso ai chip, l’unica risposta della Cina non potrà che essere quella di spingere per la sua industria”.

Tra le aziende target delle policy governative sicuramente ci sarà Semiconductor Manufacturing International Corp (Smic), principale player cinese, di recente entrata nel mirino delle agenzie governative statunitensi e possibile new entry nella black list come raccontato la settimana scorsa da Formiche.net. Si tratta di un risultato che l’attuale strategia americana potrebbe pagare nel lungo termine, data il grande margine di spesa in ricerca e sviluppo del Dragone. Tuttavia, l’ecosistema cinese presenta un ulteriore vulnerabilità: rimane ancora fortemente dipendente dalle aziende occidentali per la fornitura dell’equipaggiamento essenziale per la fabbricazione dei microchip, il quale rischia di diventare un ulteriore barriera per colmare il gap tecnologico con gli Stati Uniti.

INTANTO NVIDIA SCUOTE IL MERCATO…

È di ieri la notizia bomba dell’accordo storico raggiunto tra l’azienda americana Nvidia, colosso del software americano, e l’holding finanziaria giapponese SoftBank per l’acquisto di Arm Ltd., alla cifra record di 40 miliardi di dollari. Arm, public company tecnologica britannica, era stata acquisita dal gruppo giapponese nel luglio del 2016 e rappresenta una delle compagnie fabless (che si occupa principalmente di licenze e vendita di software applicati ai semiconduttori) più importanti al mondo e tra i partner essenziali di altri “big” come Intel, Qualcomm e Samsung con i quali Nvidia è in diretta competizione.

La portata dell’accordo va oltre il mero riflesso commerciale. Secondo Bloomberg, “la sua tecnologia è al cuore di oltre un miliardo di smartphone venduti annualmente” oltre a essere fondamentale per la progettazione di chip utilizzati “in tutto, fino all’elettronica domestica”, dai notebook fino alle automobili. “È una compagnia il cui raggio d’azione è ineguagliato in tutta la storia della tecnologia”, ha commentato Jensen Huang, amministratore delegato di Nvidia. “Stiamo unendo il AI computing di Nvidia con l’ampio ecosistema di Arm”. Il che aprirebbe un ventaglio di possibilità commerciali a Nvidia finora inesplorate e potenzialmente in grado di alterare gli equilibri di mercato.

L’accordo sembra avere un riflesso immediato anche nel contesto della guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Infatti, Arm diventerà una divisione “sotto il pieno controllo di un competitor americano nel mercato dei chip”, proprio nel momento in cui Pechino “sta correndo per costruire un’industria dei semiconduttori che i funzionari americani vogliono arginare”, scrive Reuters. L’acquisto, proprio per il fatto che sottrarrà al mercato tecnologico un attore che si è dimostrato “neutrale” per lungo tempo, verrà sottoposto in Regno Unito, Cina e Stati Uniti a un processo di approvazione dei “regolatori”, come rimarcato dal South China Morning Post.

TAIWAN NELL’OCCHIO DEL CICLONE…

Con un mercato dei semiconduttori che pare restringersi da ambo i fronti – dell’hardware e del software – il rischio è che la Cina possa sentirsi sempre più isolata, senza forniture da Tsmc e in un contesto di crescente consolidamento del gap tecnologico con gli Stati Uniti. Infatti, la mossa di Nvidia va letta anche come possibile complemento alla strategia dell’amministrazione di tagliare le supply chain di Huawei, aumentando di fatto la sua capacità commerciale in molti settori.

Se fallissero i piani di Pechino per un’industria domestica dei chip, il forzoso decoupling da Washington potrebbe indurre a considerare un’ipotesi per ora improbabile, ma non impossibile: l’invasione di Taiwan. “La Cina potrebbe approfittare della situazione per colpire quattro uccelli con una pietra: riportare Taiwan sotto controllo cinese, assicurarsi strutture avanzate per la produzione di chip, danneggiare le supply chain americane e dimostrare che l’America non domina più la regione”, suggerisce il quotidiano australiano The Sidney Morning Herald. Il tutto mentre le autorità taiwanese in questi giorni hanno indetto una serie di war games per prepararsi ad un attacco da parte dell’Esercito popolare di liberazione.

Secondo gli studi del Pentagono, gli Stati Uniti perderebbero in quasi tutti gli scenari di conflitto previsti nello stretto. C’è da attendersi solo quando e come avverrà l’innesco di una crisi dalla portata senza precedenti.

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