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Il virus di Conte? La Draghifobia. La versione di Davide Giacalone

C’è da capirlo, ma non da assecondarlo. Quando Mario Draghi dice che si deve puntare sugli investimenti e non sull’assistenzialismo è difficile dargli torto; quando afferma che i lavoratori si difendono creando lavoro e non difendendo posti di lavoro improduttivi o inesistenti è complicato negarlo, siamo quasi nel campo dell’ovvio, ma terribilmente dissonante da quel che sta facendo il governo. L’opposto. Ora i francesi presentano il loro piano per usare i fondi Next Generation Ue. I loro saranno meno di quelli che spettano a noi, ma il loro governo già li indirizza. Noi aspettiamo ottobre. Dopo avere perso tanto, ma tanto tempo. Ecco, in queste condizioni se si chiede al Giuseppe Conte di Mario Draghi è comprensibile che non festeggi.

Ma non è consentibile che vaneggi. Dunque, secondo il presidente del Consiglio, gli offrì il posto di presidente della Commissione europea, ma l’altro gli rispose che era stanco. Anche io: di sentire roba simile. Intanto il presidente non lo nomina il governo e, caso mai ci se ne fosse dimenticati, i nomi dei candidati si trovavano sulla scheda elettorale, ma nessuno di loro ha poi avuto alle spalle un gruppo abbastanza forte.

Quella presenza sulle schede indica una cosa precisa: è un ruolo politico, pertanto sottoposto al consenso elettorale. Diretto o intermediato dal Parlamento. Ove mai Conte avesse voluto portare Draghi alla presidenza della commissione, quindi, avrebbe dovuto negoziarlo con gli altri.

Nel qual caso, come già dimostrato, il candidato sarebbe stato più influente del candidante. A meno che Conte non abbia proposto a Draghi di nominarlo commissario italiano, salvo poi vedere se era possibile la presidenza. Roba ai limiti del raggiro. Ma c’è assai di più. Draghi aveva fin lì svolto, in modo eccellente, il ruolo di presidente della Bce, che è l’opposto di quello di presidente della Commissione: ovvero non politico, anzi indipendente dalla politica, e non sottoposto al voto popolare. Ed è bene che sia così.

Ma supporre di prendere chi ha svolto un ruolo e portarlo a fare l’altro può passare dalla testa di chi si trova a Palazzo Chigi senza mai avere fatto politica ed essendoci giusto da sconosciuto. Carriera suggestiva, ma non traducibile nelle lingue europee che ancora hanno a cuore gli equilibri istituzionali e il buon senso. Scopo dell’uscita?

Sbruciacchiare le potenzialità nazionali di Draghi. Una mandrakata interdittiva, finalizzata a vincere la sola competizione tristemente in corso: chi gestisce i soldi europei, provando a spenderli per galleggiarci sopra. Sappiamo tutti che Mario Draghi avrebbe le competenze e le relazioni per finalizzarli a far cambiare e ripartire l’Italia, come sappiamo anche che non c’è una maggioranza parlamentare che lo sostiene, che sarebbe un (meritato) commissariamento della politica, sicché la faccenda appartiene più al sogno che alla realtà.

La dragofobia di chi non può negare l’ovvio, ma non sa fare il necessario, però, induce ad eccedere in prudenza, cercando d’allontanare anche solo l’ipotesi del sogno.



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