Il film gangsteristico-mafioso più educativo della storia del cinema è forse Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) di Martin Scorsese. La scena finale con il protagonista, Henry Hill (il bravo e bello Ray Liotta), ridottosi a vivere in una modesta casetta di legno a schiera, nella sperduta provincia americana, sotto protezione, dopo aver passato venti anni a New York, tra lusso sfrenato, furti, cocaina, assassini, donne e qualche anno in carcere, vale più di mille discorsi. Un film che torna attuale in questi giorni non solo perché compie 30 anni ma anche per il ritorno sulle pagine delle cronache, negli ultimi mesi, di azioni criminogene di matrice mafiosa (si veda Foggia e il Gargano), ma, soprattutto, per la creazione da parte del Vaticano della prima Consulta internazionale contro le mafie.
Sarebbe opera di prevenzione contro la delinquenza e la brutale violenza, soprattutto dopo i fatti di Colleferro, mostrare ai giovani, come dicevamo in apertura, la storia del personaggio Henry Hill, che negli anni Sessanta comincia a marinare la scuola per dedicarsi a delle piccole commissioni, “innocenti”, ma in realtà lavoretti propedeutici di delitti, per i boss del suo quartiere, Brownsville, nell’area di Brooklyn. Scorsese, notevole autore (Mean Street, 1973, Taxi driver, 1976, Il colore dei soldi, 1986, The Aviator, 2004, per ricordare solo alcuni titoli) nonché fine storico del cinema (A Personal Journey Through American Movies, 1995), sceneggia il romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi, insieme all’autore, disegnando una sinfonia inarrestabile della storia della mafia newyorkese come mai si era visto al cinema. La sua regia è letteralmente travolgente. La camera non è mai ferma, i piani sequenza (di ben tre minuti quello in cui segue Henry e la stupita fidanzata Karen, durante l’entrata al Copacabana, passando per la porta di servizio, evitando la fila, e imboccando gli stretti corridoi, le cucine, e poi altri passaggi, sino alla sontuosa sala), i carrelli (per es., quelli ravvicinati sui volti dei mafiosi e delle loro donne, durante le feste e le cene) e i dettagli (violenti, nelle scene di pestaggi e uccisioni), si succedono in un montaggio incalzante, innovativo, divenuto manuale per futuri registi.
Dopo la visione di Goodfellas nessun spettatore, soprattutto adolescente, ha il desiderio di emulare quelle gesta “eroiche” che egli ha visto nella prima parte, sia perché sono di una efferatezza gratuita che la regia di Scorsese fa apparire ancor più riprovevoli, sia perché tutti quegli “eroi” si uccideranno tra di loro (come nel caso dell’amico di Henry, Tommy de Vito, paranoico dalla pistola facile: un incredibile Joe Pesci: premiato con L’Oscar), sia nelle guerre esterne tra famiglie mafiose.
Goodfellas è film utile per tracciare una storia del Novecento in quanto aggiunge un tassello sociologico da noi poco conosciuto. Mentre negli anni Sessanta e Settanta avevamo diverse rivoluzioni culturali, dalla nuova musica rock, ai movimenti studenteschi nei college e nelle università, mentre iniziava la tormentata guerra in Vietnam, la mafia non dormiva, usando metodi da Chicago anni Venti, passava dal traffico di varia refurtiva (denaro, pellicce di visone, derrate alimentari, elettrodomestici, ecc.) al traffico della cocaina.
Alla fine, Henry, ritenuto non più affidabile dal capo famiglia Paul Cicero (un Paul Sorvino dalla magnifica flemma) e da Jimmy Conway (una calibrata performance in sottrazione di Robert de Niro), potrà salvarsi solo affidandosi alla polizia con l’accettare il programma di protezione, come ricordato: ossia testimoniare al processo contro i suoi ex amici mafiosi e poi vivere, il resto della sua vita, di semplice lavoro, nascosto in un’anonima cittadina. È lui, Henry, la voce narrante, alternata in alcuni momenti a quella della moglie Karen (Lorraine Bracco; aggressiva, innamorata, poetica), che ci ha raccontato, con interventi di voice over, questo sogno di grandezza finito male.
Scorsese, con una citazione da studioso di cinema, chiude la saga di questa famiglia mafiosa riservando la penultima inquadratura a Tommy de Vito (che narrativamente è già stato giustiziato molto prima) mentre, in piedi, fa fuoco contro lo spettatore, omaggiando così il finale di The Great Robbery Train (Il grande assalto al treno, E.S. Porter, 1903). Come ad avvertici: attenzione che dai cattivi, dai violenti, dai mafiosi, dai finti “bravi ragazzi” (“goodfellas”) non ci siamo ancora liberati.