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Cosa manca nel piano di Conte per il Recovery Fund. L’analisi di Polillo

Teoria (seppur addomesticata) del “vincolo estero” e centralità della Pubblica amministrazione (“elemento chiave per la modernizzazione del Paese” pag. 27): sembrano essere questi i cardini delle “linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, predisposto dal governo e trasmesso dal presidente Giuseppe Conte ai presidenti di Camera e Senato. Dalle raccomandazioni europee dei due anni precedenti sono state volutamente travisate le cose più ostiche da un punto di vista politico. Specie nell’imminenza del prossimo confronto elettorale.

In tema di pensioni, infatti, la Commissione non aveva raccomandato di “attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale”, come scritto sul documento. Con una critica evidente nei confronti di quota 100, ma anche circoscritta in un perimetro rassicurante. La Commissione aveva invocato, invece, un taglio generalizzato delle pensioni di vecchiaia, per fare cassa e quindi finanziare altre spese. Una prospettiva non solo ben più preoccupante, ma in aperta violazione del principio del “legittimo affidamento”, che costituisce uno dei cardini principali del diritto europeo. E comunque non proprio un assist per la campagna elettorale.

Non certo l’unica pecca del documento. Nel descrivere la crisi italiana, esso prende a prestito tutti i parametri individuati dalla Commissione europea. Per carità: va benissimo. Quegli elementi riassumono pienamente il malessere italiano, non solo nei punti di debolezza del sistema economico del Paese. Si può forse negare il debole tasso di sviluppo conseguito? O che esso sia stato la fonte delle “ripercussioni negative sul benessere dei cittadini e sulle diseguaglianze sociali, territoriali e di genere, oltre a causare un deflusso netto di giovani altamente qualificati”, come recita il documento. Con buona pace di tutti coloro – Beppe Grillo ancora l’altro ieri – che sostengono la tesi della “decrescita felice”.

Difficile confutare gli altri elementi negativi dell’analisi, che qui si riassumono: il gap tecnologico ed educativo, il forte calo degli investimenti lordi, il basso tasso di partecipazione al lavoro e l’elevato livello di disoccupazione specie tra i giovani e le donne. Elementi che hanno contribuito a ridurre, sul piano demografico, il tasso di fecondità e a far crescere quello di invecchiamento della popolazione. Ed, infine, l’evergreen di sempre: il forte peso del debito pubblico che per essere sostenibile richiede una “crescita forte e stabile del Pil”. Tesi ineccepibile.

Ma allora dov’è il dissenso? Sulle omissioni relative alla “valutazione equilibrata dei punti di forza” dell’economia italiana. Bene la qualifica attribuita all’Italia: “Un’economia avanzata a spiccata vocazione manifatturiera ed uno dei principali Paesi esportatori europei”. Nel 2019, continua il documento: “il valore di esportazione delle merci ha raggiunto i 476 miliardi di euro (…) il surplus della bilancia delle partite correnti ha raggiunto i 53,4 miliardi, equivalenti al 3% del Prodotto interno lordo”. Legittimo orgoglio.

Sennonché il rovescio di quella medaglia, di cui non si parla, è l’eccesso di risparmio interno che questi stessi dati stanno a certificare. Per cui quelle risorse, non trovando utilizzo all’interno del Paese, sono messe a disposizione dell’estero. Si può fare qualcosa per impedire, grazie ad una diversa politica economica, che questo avvenga? Si può puntare ad un pieno utilizzo delle risorse prodotte all’interno del Paese? O bisogna continuare a dare supporto alla ricchezza altrui, mentre il Paese sprofonda nel marasma fotografato dagli indicatori del malessere, appena citati?

Che l’Europa non si interroghi su questi temi, è comprensibile. Quei flussi di denaro italiano, che prendono la via di Berlino o di Parigi, fanno comodo alle grandi banche d’affari di quei Paesi. Che non se ne occupi il governo nazionale, invece, se non è tradimento, poco ci manca. Ma occuparsi di queste cose, significa mettere in moto, dopo averlo costruito, un meccanismo propulsivo di sviluppo. Il grande assente in un documento dove tutto è elargizione. Come se i 127,6 miliardi di nuovi debiti che l’Italia contrarrà non dovessero essere ripagati. Quelle risorse finiranno. E se non dovessero contribuire allo start up dell’intero Paese sarebbero solo parte di quel “debito cattivo” indicato da Mario Draghi.

Può, inoltre, la Pubblica amministrazione italiana essere il motore di questa grande modernizzazione? Francamente ne dubitiamo. In pochi giorni, strutture sofferenti da anni, dovrebbero, all’improvviso svegliarsi da un lungo letargo, e gestire centinaia di miliardi, con le modalità ed i tempi imposti da una tecnostruttura, come quella europea, che in Italia non ha, salvo limitate eccezioni, alcun punto di paragone. Se così non fosse stato, in passato, lo stesso confronto a livello europeo sarebbe stato meno acquiescente. E le indicazioni piovute da Bruxelles, forse, meno lunari e controproducenti rispetto alla realtà italiana di questi ultimi anni.

Eccessivo pessimismo? Può essere. Ma i 557 progetti presentati dalle singole Amministrazioni, per un totale di 670 miliardi (tre volte tanto i finanziamenti della Next Generation per l’Italia) non sono stati solo un incidente di percorso. Ma la dimostrazione di come lavora la macchina pubblica. Il ministro Vincenzo Amendola ha sporto denuncia contro le “manine” che avrebbero diffuso quelle schede. Ci può anche stare. Ma per il resto? Le polemiche sulla sanità, dove ancora si sta sfogliando la margherita: Mes o Recovery? Oppure l’idea di fare o non fare quella che viene pomposamente chiamata “riforma fiscale” e che invece, dato il contesto, non potrà essere che un piccolo intervento di manutenzione. Sempre che la Commissione sia consenziente. Grande è quindi la confusione sotto il cielo, come diceva il presidente Mao, ma non è detto che la situazione sia anche eccellente.

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