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Da Stato pigliatutto a fallimento di Stato. Zecchini spiega come evitarlo

A giudicare dal gran numero di società su cui si sta estendendo la mano pubblica, sembra di essere ritornati a una nuova versione delle ben note Partecipazioni Statali di triste memoria. Quella esperienza si chiuse nei primi anni ’90, quando si riconobbe che con quelle imprese il soggetto pubblico non era in grado né di perseguire l’interesse collettivo, né di ottenere una gestione economicamente sostenibile, che non riversasse grandi oneri su una finanza pubblica già disastrata. La sostenibilità appariva sempre più a rischio in anni in cui la concorrenza all’interno del mercato unico, come sul mercato globale si faceva sempre più agguerrita e doveva essere fronteggiata con frequenti abbattimenti del valore esterno della moneta nazionale.

Negli ultimi anni, passo dopo passo, si è imboccato il cammino inverso. L’occasione è stata fornita ancor prima dell’emergenza dovuta all’epidemia di Covid-19, quando nello scorso decennio il sistema delle grandi e medie imprese ha mostrato sempre più difficoltà ad adeguarsi all’impetuosa avanzata dell’innovazione tecnologica e per questa via a competere con la concorrenza estera che con più rapidità aveva fatto dell’innovazione tecnologica la sua arma più efficace per la conquista del mercato. Naturalmente non tutte le imprese hanno mostrato cedimenti sui mercati, perché un nucleo ha investito nella stessa direzione riuscendo a consolidare o ampliare la sua posizione tanto all’interno che all’estero. Ma questo non ha prodotto un effetto trainante per il resto del sistema nel senso di un esteso e profondo rinnovamento; lo hanno impedito le rigidità di un ambiente istituzionale, normativo e culturale troppo legato ai vecchi schemi degli anni 50 e 60, quando prevalevano le grandi imprese.

A testimoniare le difficoltà dello scorso decennio stanno dati incontestabili, quali il crollo della produttività del lavoro e di quella multifattoriale, seppure con qualche modesto rimbalzo lungo una tendenza negativa, la pochezza degli investimenti nel rinnovamento delle strutture produttive e delle infrastrutture, la modestia delle spese, sia delle imprese che del pubblico, in ricerca ed innovazione, il saldo negativo della bilancia tecnologica e lo scarso interesse degli investitori esteri a impiantare aziende in Italia. Alitalia, Ilva, Mps, per citare alcuni dei nomi più noti, erano in difficoltà prima dell’epidemia e non erano le sole perché altre 200 imprese di dimensioni medio-grandi si trovavano in situazioni critiche a tal punto da chiedere l’apertura di un tavolo di crisi al ministero dello Sviluppo Economico nel tentativo di trovare una soluzione imprenditoriale che non portasse alla chiusura. Non erano concentrate in un particolare comparto che era in declino sui mercati mondiali, ma rappresentavano il sintomo di un malessere diffuso nel sistema, che si riassumeva nel declino del dinamismo imprenditoriale, attestato dal saldo negativo tra imprese che cessavano e quelle che nascevano.

L’epidemia ha prodotto la diffusione della crisi alla maggior parte del sistema di imprese ed offerto al governo l’occasione non solo per venire in soccorso con sostegni alla maggioranza delle aziende, ma per prendere il controllo di società grandi e meno grandi. Autostrade, la Rete Unica e altre società, in cui la partecipazione azionaria pubblica è resa possibile da una nuova norma che la consente attraverso un apposito fondo creato ad hoc, tutte vanno ad aggiungersi alla galassia pubblica, che già vede ben 5 sue società nelle prime dieci posizioni nelle classifiche di Mediobanca in termini di fatturato, dipendenti e utili. Vi sono, tuttavia, alcune differenze rispetto all’approccio seguito negli anni 30, quando fu creato l’Iri, e nel dopo guerra, negli anni delle partecipazioni statali e della nazionalizzazione delle compagnie elettriche. L’intendimento enunciato nelle recenti dichiarazioni ufficiali è quello di agevolare la ristrutturazione aziendale e successivamente cedere le partecipazioni ai privati. Non si vuole costituire un nuovo Iri, ma si usano gli strumento indiretti della Cdp, che è di fatto una banca di sviluppo, e di altre società pubbliche, quali Amco e Simest. Si tende, inoltre, a coinvolgere il capitale privato nel cofinanziamento, sia per accedere a un più vasto serbatoio di risorse, sia per porre un freno a gestioni fallimentari.

Si va avanti, tuttavia, senza aver meditato sul fallimento delle vecchie partecipazioni statali e in assenza di una strategia volta a evitare il ripetersi degli errori del passato. Quali sono i punti deboli delle esperienze passate?

Primo, mancanza di chiarezza sugli obiettivi da assegnare alle società rilevate o partecipate, in particolare come rispondere al dilemma se perseguire un consistente flusso di utili, oppure mirare ad assorbire manodopera in eccesso, col risultato di deprimere produttività e redditività. Il compromesso tra i due si è risolto nel passato a favore del secondo obiettivo con esiti disastrosi.

Secondo, il contesto di mercato, che è radicalmente mutato rispetto ai decenni precedenti a causa dell’accelerazione nell’avanzamento delle tecnologie, della digitalizzazione intensiva, della transizione energetica, della forte pressione della concorrenza estera, pur in una fase di arretramento della globalizzazione, e del fabbisogno insoddisfatto di nuove, più elevate competenze nel lavoro. La pressione di questi fattori attualmente proviene dalla stessa concorrenza nel Mercato Unico, a cui non si può rispondere con gli aiuti di stato, ma con genuina competitività.

Terzo, scarsezza di manager capaci ed efficaci nell’operare su mercati ampi, in continua evoluzione e fortemente concorrenziali. Il fallimento di alcune imprese privatizzate è dovuto anche a manager non all’altezza del compito. L’Iri aveva allevato negli anni una schiera di dirigenti preparati e con esperienza, che hanno saputo sviluppare le aziende. Oggi, sono le business school che sfornano manager dotti ma privi di esperienza e capacità di confrontarsi con gli ostacoli istituzionali, burocratici e normativi.

Quarto, le intromissioni del mondo politico nei piani industriali, nella gestione delle società e nel reclutamento del personale. La meritocrazia non sta ai primi posti nelle scelte aziendali delle società pubbliche, né la pubblica amministrazione si è dotata di strutture di formazione di manager aziendali e di criteri stringenti di valutazione delle loro capacità.

Quinto e non ultimo, la grande incertezza sulle politiche economiche governative, con frequenti cambiamenti di indirizzo, sovrapposizioni di norme, ritardi nei finanziamenti e nei pagamenti, imprevedibilità dei tempi e delle decisioni giudiziarie in caso di controversie, e divergenze tra le differenti autorità sul territorio. A questi ostacoli, bisogna sommare il deficit di infrastrutture a sostegno delle attività d’impresa e l’inquinamento dell’ambiente di mercato ad opera di organizzazioni criminali.

Forse il governo ritiene di poter superare questi ostacoli con interventi su più fronti, ma in realtà gli interventi adottati finora non avallano questa tesi. Nei primi tre trimestri dell’anno l’orientamento di politica industriale è stato eminentemente difensivo e di protezione del sistema con estesi aiuti alle imprese. Dall’estate si è iniziato ad adottare provvedimenti per la ripresa economica senza abbandonare un atteggiamento di protezione. Nel decreto Rilancio e in quello di agosto si indicano tante misure per il rafforzamento patrimoniale delle imprese di ogni dimensione e per assumere partecipazioni azionarie attraverso il fondo Patrimonio Rilancio, ma non si specificano né i criteri d’intervento, né i meccanismi per non ricadere negli errori del passato. Né vi ha fatto cenno il ministro dello Sviluppo Economico quando ha presentato i pilastri della politica industriale nella recente audizione alla V Commissione della Camera sulle priorità per l’utilizzo del Ricovery Fund. Resta quindi senza risposta la domanda: come evitare che dalla fase dello Stato pigliatutto si passi nel tempo a quella del “Fallimento di Stato”?



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