Due aerei lunedì, due martedì e altrettanti mercoledì: l’aviazione cinese ha violato per tre giorni consecutivi i cieli di Taiwan, secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa dell’isola – considerata dalla Cina una provincia ribelle da riannettere anche con la forza, e fulcro di un confronto geopolitico che vede impegnati dalla parte di Taipei gli Stati Uniti.
Le tensioni nei quattro anni di presidenza Trump si sono notevolmente acuite, e attualmente seguono la linea delicata legata all’aumento della cooperazione militare con cui Washington non mostra semplicemente vicinanza alle istanze dell’isola/stato, ma si inserisce in un’annosa e sensibile questione interna su cui Pechino non ha possibilità di tornare indietro. Inaccettabile per il Partito/Stato perdere il controllo di un arto; impossibile esercitare influenza a livello globale senza riuscire a risolvere un problema interno di questa portata; insostenibili i piani infrastrutturali, economico-commerciali dell’area senza inglobare Taiwan.
La scorsa settimana, la Cina ha inviato un totale di 37 aerei da guerra attraverso lo Stretto (uno degli ambiti talassocratici più delicati del pianeta). Si tratta di messaggi muscolari, avvertimenti e provocazione a cui Taiwan risponde illuminando i bersagli con le batterie anti-aeree e alzando in volo i propri F-16 (notare che nella risposta c’è la contro-provocazione: sono armi americane infatti quelle usate per la contro-deterrenza).
A luglio, il ministro degli esteri taiwanese, Joseph Wu, ha dichiarato che le esercitazioni militari cinesi sono aumentate di frequenza e sono diventate “praticamente un evento quotidiano”. La Cina ha aumentato la pressione diplomatica tanto quanto militare sul governo di Tsai Ing-wen, che ha rivinto le presidenziali anche perché propone un’agenda sostanzialmente indipendentista. La stragrande maggioranza dei taiwanesi rifiuta la prospettiva di un’unione politica con la Cina nel quadro del “un paese, due sistemi” – lo schema amministrativo che avrebbe dovuto essere garantito su Hong Kong dopo l‘handover coloniale britannico, e che è praticamente saltato sotto la spinta cinesizzante del Partito comunista di Pechino.
Mentre dagli Stati Uniti senatori di primo piano come Marco Rubio chiedono di fare di più per difendere l’isola (ha parlato durante un evento dell’Hudson Institute, tempio dell’anti-cinesismo conservatore), su War on The Rocks un’analisi delle criticità attuali suggerisce che se difendere Taiwan dall’attacco della Cina viene considerata da Washington una priorità strategica, allora gli Stati Uniti dovrebbero “pagare il prezzo e assumersi i rischi” di modificare lo status quo.
Per farlo, dovrebbero aiutare profondamente Taipei a costruire una deterrenza reale e completa. Non basterebbero dunque le commesse di armi (che gli Usa hanno confermato per Taiwan), ma servirebbe un coinvolgimento maggiore in termini di politica militare e strategica degli americani attorno all’isola: “Deterrence is costly and talk is cheap“, scrivono gli analisti. È una questione di effettiva priorità oppure di uso del dossier come elemento di forte disturbo nei riguardi della Cina.
(Foto: il segretario alla salute Usa a Taiwan per una visita in cui ha ricordato il valore dimostrato da Taipei nella lotta la Covid, mentre la Cina ha fatto in modo di tagliare fuori l’isola dalle comunicazioni dirette dell’Oms)