Più di qualche osservatore, da ultimo Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, come in precedenza, tra gli altri, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ha sollevato seri dubbi sul metodo adottato dal governo per la preparazione del Recovery Plan. Con tutto il rispetto per quell’egregia persona del ministro per gli Affari Europei, Enzo Amendola, mi chiedo se fosse proprio il caso di affidare ad un comitato interministeriale (che il 9 settembre avrà la sua seconda riunione), quello appunto degli affari europei, l’elaborazione del Recovery Plan italiano.
Ed è nota un po’ a tutti, infatti, la certamente non eccelsa qualità media dei ministri di questo governo e, nondimeno, la non eccelsa qualità delle strutture dei nostri ministeri. Nelle settimane scorse, più di qualche giornale ha riferito che da vari ministeri sono stati estratti dai cassetti, in cui magari giacevano da lungo tempo, progetti e progettini a centinaia, affluiti poi al comitato, ma questo mi sembra il metodo e lo spirito opposto a quello che richiederebbe la preparazione del Recovery Plan.
Al Meeting di Rimini il ministro per l’Economia ha parlato addirittura di 573 progetti affluiti al comitato. Sono note, infatti, le linee guida che le istituzioni europee hanno dettato a questo fine per il nostro Paese, tra cui una vera digitalizzazione, un serio aumento della produttività del sistema, la sostenibilità e l’ambiente, il futuro dei giovani, una vera riforma della Pa, una seria riforma della giustizia ed altro.
Ebbene, dal punto di vista metodologico, l’impostazione di un Recovery Plan che risponda vuoi alle indicazioni che provengono dalle istituzioni europee, vuoi al vero fabbisogno del Paese, ha bisogno di un processo di tipo top down, con l’indicazione di una serie abbastanza limitata di opzioni, priorità e di progetti fattibili e concreti e non di quell’approccio sostanzialmente bottom up che si è voluto seguire. Non è andando a rovistare tra i vecchi progetti che ci sono nei ministeri o improvvisando nuovi medi e piccoli progetti che si risponde a quella che è la grande occasione per il Paese offerta da un enorme investimento globale di 209 miliardi fra prestiti e aiuti diretti, che deve servire soprattutto per il risanamento e il rilancio dell’economia e della società.
Questo anche perché tra i nostri ministri e tra i nostri ministeri la cultura e la pratica della progettazione da tempo è latitante e molto spesso laddove c’erano strutture di progetto sono state smantellate o sono diventate obsolete. A questo punto, credo serva una riflessione seria, anche perché la data del 15 ottobre per la presentazione del Recovery Plan non è una data capestro.
Davanti ad un’opportunità di questa rilevanza per il Paese intero, avremmo dovuto (e forse si è ancora in tempo) mobilitare, accanto agli esponenti di governo, le migliori intelligenze progettuali, i migliori progettisti, i più competenti esponenti delle grandi società di consulenza per perseguire, riprendendo anche alcuni aspetti del progetto Colao (stranamente subito dimenticato), stranamente subito dimenticato, in una logica top down mirata e selettiva, nel contempo le vere necessità dell’economia, della società e del Paese che da lunghi anni attendono seguendo le indicazioni di fondo che provengono dall’UE. Forse, siamo ancora in tempo per creare una vera massa critica di know how progettuale adeguato.