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Non solo Cina e 5G. Tutti i dossier di Pompeo a Roma

Una tappa, due missioni cruciali. Manca ormai una settimana alla visita del segretario di Stato Usa Mike Pompeo a Roma. Il 29 sarà in Vaticano, il 30 incontrerà i vertici del governo italiano. Sulla prima, qualsiasi pronostico è un azzardo. Il durissimo intervento del capo della diplomazia Usa sul sito conservatore First Things per denunciare il rinnovo dell’accordo Santa Sede-Cina rischia infatti di mettere in sordina i tanti altri dossier in comune fra Washington Dc e San Pietro, dal Medio Oriente alle tensioni fra Europa e Russia. Più chiara invece la road map degli incontri italiani.

CINA E 5G

In cima all’agenda campeggia il futuro della rete 5G. Solo la settimana scorsa, Pompeo ha ribadito l’ultimatum a un evento dell’Atlantic Council: il 5G delle aziende cinesi “non è la strada giusta”. Chi affida a Huawei la rete, rischia di vedersi tagliato fuori dalle comunicazioni Nato. Come è noto, Palazzo Chigi non ha intenzione di mettere al bando le aziende cinesi accusate di spionaggio come Huawei. Piuttosto, lavora con una manovra a tenaglia: da una parte l’infrastruttura di sicurezza, il “perimetro cyber”, dall’altra le nuove prescrizioni del comitato golden power per gli operatori. Una soluzione a metà, che potrebbe non bastare più.

VIA DELLA SETA

Sotto la lente del Dipartimento di Stato anche gli investimenti cinesi nei porti italiani, parte di quella nuova Via della Seta cui il governo Conte (uno) ha ufficialmente aderito nel marzo 2019, unico Paese G7.  Solo due giorni fa, il Dipartimento del Commercio americano ha inserito nella black list Cccc, colosso cinese che proprio in base a quel memorandum di un anno fa doveva investire nel porto di Trieste. Ora chiunque voglia farci affari dovrà fare i conti con le sanzioni Usa.

Preoccupa il caso di Taranto, dove il Gruppo Ferretti, in mano ai cinesi di Weichai, vuole acquistare lo scalo ex Belleli. Dossier su cui è massima l’attenzione dell’intelligence italiana e del Copasir, che ne chiederà conto al premier nell’audizione di questo martedì. Nel porto pugliese infatti c’è la Nato con le Snf (Standing Naval forces) ma anche parte di una missione chiave dell’Ue in Libia, a guida italiana, Irini.

RUSSIA

Non solo Cina. L’Italia è (troppo) vicina alla Russia per il governo americano. Se il presidente Trump può dare l’impressione di non voler calcare la mano con Mosca, all’interno della sua amministrazione la linea è e resta quella di un confronto duro. Prova ne è la denuncia del Dipartimento di Stato, via Pompeo, dell’avvelenamento dell’oppositore di Vladimir Putin Alexei Navalny con il novichok, “è qualcosa che esamineremo, valuteremo e ci assicureremo di fare ciò che dobbiamo fare per ridurre la probabilità che qualcosa di simile accada di nuovo”, ha detto la settimana scorsa, aggiungendo che il Cremlino deve “rendere conto dei responsabili”.

L’Italia certo non è stata playmaker in Europa. È arrivata a Washington DC l’eco del pasticcio telefonico fra Conte e Putin, con il via vai di smentite e controsmentite su una presunta indagine del governo russo per trovare chi ha avvelenato Navalny, assicurata da Conte, clamorosamente smentita dalla Piazza Rossa. Sulla maggioranza poi pesa l’imbarazzo di quell’astensione dei Cinque Stelle al Parlamento Ue sulla risoluzione che chiede a Putin di fare chiarezza (con la Lega che ha votato contro). Né cambia la musica sulla crisi in Bielorussia. Fatta salva una netta presa di posizione di Di Maio, l’Italia non ha certo ringhiato contro i crimini di Lukashenko.

TURCHIA E IRAN

Il secondo, vero cruccio degli Stati Uniti è il Medio Oriente, dove è in via di attuazione il grande disegno di Trump per mettere all’angolo l’Iran. A meno di due mesi dalle elezioni presidenziali, la normalizzazione dei rapporti fra Israele, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (cui si uniranno altri Stati del Golfo) è la più importante cartina di tornasole per il Tycoon, che può presentarsi ora come grande pacificatore della regione (e, almeno formalmente, perfino candidato al Nobel per la Pace). Da sempre l’Italia è un interlocutore chiave di Teheran, con cui vanta rapporti commerciali non trascurabili. Gli Stati Uniti però chiedono anche qui una chiara presa posizione di campo. L’annuncio delle sanzioni secondarie americane contro chi fa affari con l’Iran, dopo che l’Onu ha detto no a un rinnovo dell’embargo, suona come un avvertimento netto. A Roma qualcuno deve aver fiutato la svolta in arrivo, come dimostra l’annullamento (last minute) della visita del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif a inizio settembre.

MEDITERRANEO

Ma il vero campo da gioco dove l’Italia può fare la differenza è il Mediterraneo. Libia, dunque, ma anche Turchia-Grecia e Libano. Non è un mistero che gli Stati Uniti mal sopportino la presenza di truppe russe in Cirenaica, a pochi chilometri dalle coste europee, come la posizione predominante assunta dal sultano Erdogan a Tripoli. L’Italia è ancora considerato l’interlocutore più affidabile per stabilizzare la crisi, e non a caso si inseguono in queste settimane voci di un trasferimento del comando Africom sul suolo italiano. Quanto alle tensioni fra Atene ed Ankara, il Dipartimento di Stato non può e non vuole intervenire con l’accetta contro un Paese, la Turchia, che resta un bastione del fronte Est della Nato. L’Italia non ha cercato lo scontro frontale come la Francia di Macron e proprio per questo ha qualche freccia in più al suo arco per frenare l’escalation. Le telefonate fra Di Maio e Cavusoglu e, la settimana scorsa, fra Conte ed Erdogan, hanno inviato a Washington un segnale chiaro: l’Italia c’è.

LIBANO

Resta un’incognita non da poco sulle sponde del Mare Nostrum. Il Libano rischia l’implosione. Dopo la deflagrazione del porto di Beirut, il rischio di una guerra civile non è più una chimera. Un Paese che oggi è in mano ad Hezbollah, con una crisi al buio, può finire nelle mani dei suoi affittuari: i Pasdaran iraniani. Ancora una volta, la stabilità è una priorità. L’Italia ha dalla sua la missione Unifil (appena confermata), e un’esperienza pluridecennale sul campo. C’è un problema: Hezbollah, l’Italia, ce l’ha in casa. A dare l’allarme è stato proprio il Dipartimento di Stato una settimana fa: l’ambasciatore Nathan Sales, capo degli Stati Uniti per l’antiterrorismo, ha spiegato che in Italia ci sono depositi dei terroristi pieni di armi e nitrato di ammonio. Lo stesso che ha fatto saltare in aria Beirut. Per ora da Palazzo Chigi nessuna conferma, ma neanche smentite. Aspettando Pompeo…


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