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Recovery Fund? Di tutto tranne che vere riforme. L’analisi di Zecchini

Le Linee guida del governo per il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) da finanziare mediante il Recovery and Resiliency Facility dell’Ue rappresenta il nuovo tentativo di impostare una politica industriale coerente, sulla scia del piano Renzi-Calenda degli anni 2015-2018. Anche questa volta l’intento è di dare organicità all’azione pubblica tendente a innescare una ripresa duratura, un intento che nasce tra l’altro dalle sollecitazioni della Ue di fronte alla stagnazione economica del Paese e che dovrebbe conformarsi alle raccomandazioni della Commissione Ue.

In quanto tale, il tentativo è apprezzabile perché aspira a dare sistematicità alle diverse misure o progetti, da adottare o già adottati, per metterli in relazione funzionale al raggiungimento degli obiettivi ultimi prescelti e per verificarne la rispondenza all’interesse collettivo, andando oltre quella particolarità degli interessi da soddisfare, che nel passato ha sovente guidato gli interventi. Addentrandosi nell’analisi del documento si trae, nondimeno, l’impressione di un misto tra grandi sfide e grandi ambizioni di fare, da un lato, ed interventi limitati a specifici ambiti, che non affrontano il nocciolo dei diversi vincoli alla crescita, dall’altro lato. La limitatezza deriva anche dal fatto che si mostra l’ambizione di poter adottare nei due anni circa della rimanente legislatura tutte le misure che non si è riusciti a varare nei venti anni precedenti.

La sproporzione è evidente già dall’enunciazione degli obiettivi finali, che vanno dal raddoppio del tasso di crescita per portarlo all’1,6% nella media dei prossimi anni, all’aumento di 10 punti percentuali del tasso di occupazione per portarsi alla pari con la media Ue, alla riduzione dei divari territoriali di reddito, all’incremento del tasso di fertilità e della natalità, e alla sicurezza rispetto alle calamità naturali. Tra i numerosi obiettivi vi è un po’ di tutto quello che ha contrassegnato il declino economico-sociale del Paese, ma gli strumenti indicati appaiono meno che adeguati alle sfide, benché possano disporre di un volume di finanziamenti mai visto nell’ultimo ventennio. In breve, in alcuni tratti appare un libro dei sogni e in altri una riedizione di vecchi programmi.

Non è prevista nessuna grande riforma, ma solo aggiustamenti circoscritti di un sistema che non è riuscito in due decenni ad elevare il tenore di vita degli italiani. In compenso, si ripropone il ventaglio di obiettivi e strumenti che si trovano nei piani dei governi dal 2000 in poi. Raddoppiare durevolmente il tasso di espansione economica è stata la meta principale dei programmi dei governi precedenti, ma quali interventi dovrebbero questa volta rendere più probabile il suo raggiungimento?
La teoria ci dice che l’innovazione tecnologica, l’impulso agli investimenti in infrastrutture essenziali, l’incremento della produttività e la crescita demografica sono i fattori principali.

Nella realtà italiana, l’avanzamento tecnologico ha sempre stentato a diffondersi tra la massa di piccole imprese, specialmente nel settore dei servizi, non solo per carenza di risorse, ma per deficit di formazione, di investimenti in nuove tecnologie e di disposizione culturale a innovare. Nel programma governativo, invece, non è prevista una politica attiva di assistenza capillare alle Pmi in queste attività. Occorrerebbe anche rimandare tutti a scuola e nei centri di formazione, giovani e meno giovani, per apprendere conoscenze e metodi che non rientrano nei programmi d’insegnamento attuali, o vi hanno uno spazio modesto. Quindi riformare i programmi d’insegnamento e riaddestrare la classe docente per padroneggiare le nuove tecnologie.

Ma nelle Linee guida vi sono solo riferimenti generici all’adeguamento delle competenze e al miglioramento delle conoscenze digitali. Si vuole aumentare la quota di laureati e diplomati, mentre sarebbe più produttivo concentrarsi sulle competenze specialistiche che le imprese non riescono a trovare. Va inoltre considerato che il ritorno economico dell’impegno profuso nell’ottenere la laurea o competenze più avanzate non remunera gli sforzi molto di più di quanto si otterrebbe senza affrontarli. La differenziazione retributiva secondo i livelli del saper fare è troppo compressa per allettare a investire anni in apprendimenti sempre più avanzati.

Altro fattore di crescita è dato da massicci investimenti in infrastrutture, ma dovrebbero essere funzionali alla competitività delle imprese e realizzarsi in tempi raccorciati. Sul rispetto di queste due condizioni non vi è alcuna garanzia, nemmeno dal recente “decreto semplificazioni”, che ha apportato solo modesti snellimenti delle procedure. Per altro verso, il problema dell’incremento della produttività del lavoro viene affrontato con i soli incentivi fiscali e la promozione della contrattazione decentrata, lasciando da parte i due nodi delle numerose rigidità nell’impiego del lavoro e del rapporto tra retribuzione e produttività del lavoratore.

Al campionario delle rigidità si vuole, invece, aggiungere la novità del “salario minimo”: quest’ultimo può servire a evitare fenomeni di sfruttamento, ma il suo livello non dovrebbe essere fuori linea con i livelli di produttività nelle aziende, altrimenti si finisce col deprimere la domanda di lavoro e quindi il conseguimento dell’obiettivo d’occupazione. Appare in ogni caso sorprendente che nel programma governativo sia assente il collegamento esplicito tra promozione della competitività e stimolo alla produttività complessiva: la prima è vista soprattutto nell’ottica del rinnovamento tecnologico, dell’attrazione di investitori esteri e del sostegno all’internazionalizzazione delle filiere.

Un salto di 10 punti al 73% nel tasso di occupazione appare, peraltro, decisamente ambizioso tenuto conto che dal 2000 non ha mai toccato il 60% e coinvolge una società in fase di invecchiamento, con un perimetro di pensionati in continua espansione rispetto a quello degli occupati, e in presenza di una corsa alle pensioni anticipate. In questi giorni è in discussione addirittura un accorciamento dell’età minima per l’abbandono del lavoro a 64 anni (62 per i lavori usuranti), contravvenendo alla raccomandazione della Commissione europea per un ritorno allo schema originale della riforma del 2012 ed ignorando che la spesa pensionistica, compresa la sua componente assistenziale, pesa oltremodo sulle spalle dei lavoratori.

Ponendosi dal lato della domanda delle imprese, non si allentano le rigidità nella disciplina del lavoro, che tendono a scoraggiare le assunzioni; si preferisce, invece, ricorrere ad incentivazioni soggette a condizioni restrittive. Tra gli obiettivi del Pnrr, quelli di una maggiore fertilità e dell’incremento demografico rimangono scollegati da specifiche politiche di supporto, anche se si fa riferimento al Piano per la Famiglia, che è tutto da definire anche per la parte del potenziamento dell’assistenza alla genitorialità. Forse si pensa che il miglioramento delle condizioni economiche e dei servizi alla maternità possa produrre il risultato desiderato, ma in realtà è necessario un grande e difficile salto nella quantità e qualità dei servizi offerti, mentre attualmente il maggior contributo alle nascite proviene dagli immigrati. Su quest’ultimo punto non si dice nulla.

Per migliorare l’ecosistema in cui devono operare le imprese si prevedono interventi sul sistema giudiziario, nella Pubblica amministrazione e per la sicurezza rispetto a calamità naturali, ma essenzialmente ci si limita al loro efficientamento organizzativo, quando invece sarebbero necessarie riforme di normative inutilmente complesse, di procedure ridondanti e poco indenni da inquinamenti, ed una ristrutturazione dell’ordinamento giudiziario e della formazione dei giudici. Quindi si assisterà alle ennesime limature ai margini con innesto di tecniche digitali su impianti istituzionali che da anni denunciano disfunzioni e quindi andrebbero profondamente modificati.

L’ultimo tra gli obiettivi indicati è ottenere la sostenibilità della finanza pubblica e il contenimento del debito pubblico, ma non viene specificata nessuna azione, inducendo a pensare che questo sia un vincolo immanente che tarperà le ali alle molte ambizioni. È tuttavia pregevole che si siano fissati i criteri guida per la formulazione dei progetti che dovrebbero dare contenuto al Pnrr. In particolare, si enfatizza l’impatto positivo sul potenziale di crescita del Pil e sull’occupazione.

Quest’ultimo criterio rischia, tuttavia, di distorcere gli investimenti, come nel passato, nella direzione di quelli a più alta intensità di lavoro, laddove andrebbero preferiti quelli a più alto effetto su competitività e produttività. Più utili sono, invece, i criteri della quantificazione di costi ed effetti, della coerenza con gli obiettivi e le politiche di supporto, e della celerità di esecuzione. Grandi assenti tra gli obiettivi il potenziamento della concorrenza, la riforma delle rigidità del lavoro, i criteri per il ritorno del capitale pubblico nell’azionariato delle imprese. Ma alla fine l’efficacia del programma si misurerà dai progetti ancora da definire e selezionare, nonché dalla loro esecuzione.


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