Mentre il ministro degli Esteri iraniano e cinese si vedono a Pechino per portare avanti il Jcpoa-cinese, gli Stati Uniti – nemici dell’Iran per strategia regionale e della Cina per necessità globale – mandano messaggi severi al Partito/Stato. Se per Teheran l’intesa con i cinesi è fondamentale per sostituire quello che gli occidentali promettevano con l’intesa nucleare Jcpoa (ossia il rilancio del paese, schiacciato da una crisi economica mortale), per la Repubblica popolare è altrettanto cruciale l’allineamento con gli ayatollah. I 400 miliardi di investimenti cinesi che ballano sull’accordo sono da spalmare in 25 anni, una generazione, un tempo che dà già la dimensione strategica dell’intesa. La Cina cerca il petrolio e il gas iraniano per il proprio fabbisogno primario, vero, ma soprattutto cerca un hub: terrestre, da cui snodare le dinamiche della Via della Seta (a questo si legano i vari progetti infrastrutturali in discussione); marittimo da cui affacciarsi sull’Oceano Indiano. C’è già la finestra per questo secondo aspetto: il porto di Chabahar, perfetto rafforzamento verso la fascia centrale dell’oceano, che accerchierebbe l’India a occidente, e che andrebbe unito al sistema composto da Gibuti (Corno d’Africa), Gwadar (in Pakistan) e Ream (in Cambogia, dove in questi giorni è stata fatte demolire un’installazione militare americana) – in mezzo un lavorio che cerca la linea talassocratica di Malacca e passa dalle dinamiche messe in atto da Pechino con Myanmar, Sri Lanka e altri paesi dell’ampia regione.
Situazioni che gli Stati Uniti osservano preoccupati e proattivi, come anticipato. Sono di questi giorni due notizie in effetti che rendono chiaro come l’Indiano, coì come il Pacifico, ossia i mari, siano al centro della partita Usa-Cina. Vedere per credere innanzitutto il discorso del capo del Pentagono, Mark Esper, alla Center for Strategic and Budgetary Assessments a Washington. Nel cuore del policy-planning miliare statunitense, il segretario alla Difesa ha annunciato un piano mastodontico per ripotare la US Navy a livelli (numerici) mai più toccati dai tempi dell’amministrazione Reagan. Lontano dal vincolo politico contingente, il piano strategico ha già un nome, Battle Force 2045 – e difficilmente cambierà qualcosa dopo le elezioni Usa2020 su questa direttrice che traguarda i prossimi 25 anni (esattamente come l’accordo Iran-Cina). Ci sono già anche i numeri: 70-80 sottomarini d’attacco, 8-11 portaerei nucleari, 6 portaerei leggere, 60-70 navi da guerra di taglia inferiore, 140-240 navi robotizzate, 50-60 imbarcazioni anfibie. Un progetto enorme (forse non raggiungibile completamente) che ha un solo obiettivo: contrastare la crescita militare cinese (che è tanto qualitativa che quantitativa) e far fronte all’impegno globale del Dragone.
Ecco che qui si apre il discorso sulla seconda delle proattività americane, strettamente riferita ai due bacini oceanici di cui si è parlato. Nei giorni scorsi infatti, mentre Esper parlava al think tank specializzato in Difesa, il segretario di Stato, Mike Pompeo, era impegnato in una visita a Tokyo – asset cruciale del confronto alla Cina, attore che ha rilanciato la volontà di riamarsi per allinearsi agli Usa, per contrastare la Cina. “Una volta che avremo istituzionalizzato quello che stiamo facendo noi quattro assieme, potremo iniziare a costruire una vera cornice di sicurezza”, ha detto Pompeo parlando ai rappresentanti del cosiddetto Qaud, il quartetto composto con Giappone, India e Australia. Tutti paesi intenzionati a contenere la Cina, con cui condividono anche una dimensione geografica e geopolitica. Pompeo quando parla di istituzionalizzazione di quel sistema multilaterale delinea con una parola una delle principali dimensioni strategiche statunitensi (che, piaccia o no al presidente Donald Trump, si compone per alleanze, nonostante i motti America First facciano breccia tra gli elettori).
L’istituzionalizzazione è vista “contro la sfida del Partito comunista cinese”, ha spiegato Pompeo, esprimendosi in termini che anche Esper avrebbe potuto usare mentre annunciava che il Battle Force 2045 sarebbe stato pronto per il 2049, ossia per il centenario della Repubblica Popolare che il segretario del Partito Xi Jinping guiderà a vita. Circostanze caduta a grappolo sull’intesa Pechino-Teheran (che ancora non s’è chiusa per il cruccio iraniano di perdere sovranità, con i Pasdaran percepiscono di essere strumento e non parte). Il Quad è la sintesi della dimensione strategica che il Pentagono ha individuato per il Comando Indo-Pacifico – recentemente rimodulato anche nel nome (omen). Comando che potrebbe essere il collettore della “Nato-Asiatica” che la partnership a quattro intende catalizzare. Per Washington l’impegno non è tanto nel costruire l’alleanza, né tanto meno la sua funzione (anti-Cina), bensì individuare una scala di priorità che possa integrare le singole volontà dei partner senza forzare mano e tempi, col problema che Pechino però non è lì ad aspettare.