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Mes in alto mare, perché Conte ha colpito a freddo. L’analisi di Polillo

Il presidente del Consiglio doveva, come aveva fatto nei giorni e nelle settimane precedenti, usare il silenziatore. Smussare gli angoli. Rinviare ad un futuro lontano. Nella speranza di poter ripetere quanto aveva già fatto a proposito della Tap e della Tav. Mettendo, alla fine, su un piatto della bilancia l’amaro calice della rinuncia ad uno dei tanti slogan del MoVimento e sull’altro la sopravvivenza del governo e, forse, della stessa legislatura. Il commento di Gianfranco Polillo

A lungo rinviata, nella ricerca di un possibile quieto vivere all’interno della maggioranza, la questione Mes sta diventando una piaga verminosa.

I toni tra i diversi alleati diventano sempre più duri. Lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che sembrava aver avviato una lenta marcia di avvicinamento verso posizioni più ragionevoli, si è invece, improvvisamente impuntato. Nella conferenza stampa di domenica ha riaperto all’improvviso il cahier de doléance, rispondendo alla domanda di un giornalista. Che i maligni hanno subito etichettato come mossa preventiva concordata con il prode Rocco Casalino, che da gran cerimoniere officiava la riunione.

La risposta fornita è stata tutt’altro che convincente. Rispetto agli stereotipi sull’argomento, poche le novità. Di nuovo l’evocare lo stigma, ossia quel danno reputazionale che deriverebbe dal richiedere l’intervento del Mes. E che non sarebbe altro che la dichiarazione preventiva di un presunto fallimento. Quindi l’osservazione che non si trattava di grants, vale a dire aiuti a fondo perduto; ma di loans: prestiti da ripagare, seppure ottenuti a bassissimo tasso d’interesse e con una scadenza decennale. Tutte cose su cui alcuni economisti, specie della Lega, avevano sprecato, fin dall’inizio, fiumi d’inchiostro. Non riuscendo tuttavia ad avere successo nella nobilissima arte della costruzione del consenso.

L’unica notizia, se così si può dire, era stata l’affermazione che i 37 miliardi del Mes non potevano essere utilizzati per nuove spese. Notizia che avrebbe richiesto un supplemento d’indagine e la presentazione di prove, data la novità dell’argomentazione. Ma così non è stato, alimentando il sospetto che si trattasse della semplice voce dal sen fuggito. Piuttosto che di una meditata comunicazione. Il che spiegherebbe l’irritazione postuma di Nicola Zingaretti ed il suo invito ad essere meno approssimativi nell’affrontare argomenti così delicati. Posizione, quella del segretario dei Dem, che non poteva che alimentare ulteriormente una polemica, destinata ad investire tutti gli stati maggiori delle diverse forze politiche italiane.

Ed ecco allora il formarsi degli schieramenti di sempre: da una parte 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, ferocemente contrari; dall’altra Pd, Italia viva, Forza Italia e le altre forze della sinistra. Tutte disponibili a correre il rischio, se di rischio si può ancora parlare. La dimostrazione che un’antica frattura non solo non si era rimarginata, ma che, se fatta esplodere nelle sedi proprie, quella parlamentare, non sarebbe potuta rimanere senza conseguenze. Alla luce di queste considerazioni, quindi, il comportamento di Giuseppe Conte appare poco comprensibile.

Doveva, come aveva fatto nei giorni e nelle settimane precedenti, usare il silenziatore. Smussare gli angoli. Rinviare ad un futuro lontano. Nella speranza di poter ripetere quanto aveva già fatto a proposito della Tap e della Tav. Mettendo, alla fine, su un piatto della bilancia l’amaro calice della rinuncia ad uno dei tanti slogan del MoVimento e sull’altro la sopravvivenza del governo e, forse, della stessa legislatura. Ed invece ha, in qualche modo, colpito a freddo, con un cambiamento di strategia che non poteva rimanere senza conseguenze.

Il perché di questa scelta rimane, al momento, un mistero. Si può argomentare sulle difficoltà che sta incontrando il varo del Recovery Fund, mentre la pandemia accelera, mietendo vittime in tutta Europa. I soldi promessi arriveranno, ma con tempi che non sono congruenti con quelli della diffusione del Covid-19. In simili circostanze diventa sempre più difficile non utilizzare gli unici che, al momento, sono disponibili. Certo c’è sempre il bazooka della Bce, che assorbe una massa crescente di titoli dei debiti sovrani. Ma gli impegni corrono ancora più in fretta. C’è un’economia da salvare, per quanto sia possibile. Famiglie da sostenere, lavoratori da garantire. Sempre più difficile allora rinunciare a somme che possono essere usate esclusivamente per far fronte alle spese dirette ed indirette collegate con il virus. Quella che all’inizio sembrava essere una limitazione nel possibile uso delle risorse, con il trascorrere dei mesi, è divenuta, invece, una grande attrazione.

Ed allora: non c’è più tempo per le bizze ideologiche. Questa purtroppo è la dura verità. Dire ad esempio che quei prestiti comporteranno spese aggiuntive per gli interessi, di qualche centinaio di milioni, mentre si spendono miliardi, seppur per nobili ragioni, appare essere un non senso. Un sentimento che accentua il fossato tra la pubblica opinione e le élite del Paese. E che innervosisce soprattutto i Dem: i quali non devono rispondere solo ad un pugno di “militanti”, ma ad un elettorato ben più vasto e diffuso. Potrebbe forse essere questa un’altra ragione del comportamento del presidente del Consiglio. Sempre più sottoposto alla pressione dei suoi alleati e forse degli stessi vertici europei. Si pensi agli interventi di Paolo Gentiloni. Alla fine ha detto basta. E reso pubblico un condizionamento fino allora sotterraneo. Che ognuno – soprattutto gli Stati generali dei 5 Stelle –  si assuma le proprie responsabilità.

Sarà così? Difficile dirlo, considerato anche lo spostamento della resa dei conti interna alla sua forza politica di riferimento. Su un dato, tuttavia, occorre riflettere. Si è continuamente ripetuto che tutto poteva essere garantito dal Recovery Fund.

A ben vedere, invece, le scelte europee sono andate in tutt’altra direzione. Mettere insieme quei 750 miliardi di euro, ha comportato la soppressione o il ridimensionamento di altri programmi. Tra questi quello dell’Eu4Health: il programma sanitario di 9,5 miliardi concepito per la lotta contro le possibili epidemie. Divenuto pleonastico dopo la nascita del nuovo Mes, con le sue specifiche linee di credito (Pandemic Crisis Support). C’è quindi il rischio che le spese sostenute contro il Covid potranno essere finanziate solo con il ricorso a quest’ultimo strumento. Un’ultima beffa, oltre naturalmente al danno subito. Ma sarà anche questa colpa di un’Europa matrigna o delle inconcludenze della politica italiana?

 

 


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