Al netto (e non è un netto che è di poco conto) degli anni che ci separano dalla posa della prima pietra (era il 1988 con Enrico Ferri ministro dei Lavori Pubblici e Gianni De Michelis vicepresidente del Consiglio), e dagli episodi di corruzione reiterati nel tempo, il Mose che è entrato in funzione oggi è una di quelle notizie che possono segnare uno spartiacque.
Le 58 paratie mobili che si sono sollevate in un’ora e 17 minuti, salvando Venezia dall’acqua alta, ci hanno riportato alla memoria quell’Italia che lanciava la propria sfida al mondo con l’ingegno dell’uomo e la tecnologia delle imprese.
Quell’Italia che seppe costruire la propria crescita industriale anche con la realizzazione di opere eccellenti come il Ponte Morandi di Genova, sintesi di un Paese che sperimentava e innovava, come testimoniano gli straordinari manufatti della Bologna-Firenze, un’infrastruttura simbolica dell’Italia di allora che sfidava il futuro, e che per bellezza, ingegno e tecnologia, dovrebbero essere catalogati come patrimonio Unesco.
Ha ragione Renzo Piano, quando a proposito del completamento del nuovo Ponte di Genova ha affermato che non poteva essere una festa, ma queste due infrastrutture (Ponte e Mose) costituiscono in pochi mesi l’occasione per ragionare sulle azioni da intraprendere per trasformare i risultati positivi in buone pratiche, dove al centro ci sono tecnologie, know how, competenze e management.
Dopo la tragedia di Genova ho detto in molte occasioni che bisognava evitare un pericoloso dualismo tra la necessità di manutenere le opere esistenti e l’indubbia urgenza di nuove infrastrutture.
Dopo Tangentopoli l’opposizione costante alle infrastrutture, percepite non come metafora dello sviluppo ma come il presupposto della corruzione, è diventata la cifra del Paese, come testimoniano anche i casi eclatanti della Tap, della Tav e della stessa Gronda di Genova. Negli ultimi trenta anni, invece, l’Italia ha realizzato solo il 13% di nuove infrastrutture, e in prevalenza sono state le nuove arterie ferroviarie a modificare la mobilità nel nostro Paese. In compenso il settore delle costruzioni è stato il più normato, con una superfetazione e ipertrofia legislativa (dalla Merloni alla revisione del Codice degli Appalti sono trascorsi 26 anni) che invece di snellire i procedimenti hanno stratificato i meccanismi di corruttela perché reso ancora più opache le procedure.
C’è un fattore, però, che è il più importante sul quale il Paese tutto, dallo Stato alle Regioni e alle città non può derogare: il primato delle competenze.
Il nuovo Ponte di Genova (grazie anche alla deroga alle procedure ordinarie), si è realizzato in tempi record perché è stato individuato quale commissario Marco Bucci, manager di spessore, che ha scelto fin da primi momenti attraverso una gara pubblica, chi potesse gestire con le metodologie di program/project management l’intero progetto.
Le competenze di Bucci, che è anche sindaco di Genova, hanno fatto la differenza. Le persone e non le procedure cambiano le cose. Così come a Venezia, dove questo successo porta la firma di tre persone molto diverse tra loro, che hanno saputo integrare le competenze e le diverse sensibilità di ognuno.
Il commissario straordinario al Mose, Elisabetta Spitz, insieme con il provveditore alle Opere pubbliche Cinzia Zincone e il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro sono i veri artefici di questo miracolo del made in Italy, che quando investe sul coraggio e sul primato della conoscenza (insieme con l’umiltà i pilastri della competenza disegnata da Mario Draghi al meeting di Rimini) vince e porta a segno risultati storici. Al netto dei tanti e troppi anni persi oggi è una giornata nella quale siamo fieri di essere italiani.