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Modello fiscale tedesco? Occhio agli esperimenti. L’analisi di Polillo

Confessiamo una certa apprensione: l’ansia che deriva dalla necessità di conoscere quanto prima l’algoritmo di cui si parla ai fini della riforma fiscale. Innanzitutto perché il termine evoca un qualcosa di preoccupante. Un’entità misteriosa, guidata dalla logica spietata dei numeri. Espressione matematica, tra l’altro, di origine tedesca: caratteristica che accrescere possibili paure, per quanto non sempre motivate.

Ma questo è un po’ il destino dei popoli. Se per i tedeschi gli italiani sono soprattutto mafia e spaghetti. Per gli italiani i tedeschi restano quelli conosciuti durante le guerre che hanno insanguinato l’Europa. Ed il paragone non è certo a favore di questi ultimi. Per cui ogni ibridazione deve essere analizzata con cura, al fine di evitare possibili effetti à la Frankenstein.

Al momento le informazioni di stampa sono fin troppo generiche e frammentarie. Difficile, quindi, non essere d’accordo con Luigi Marattin, presidente della commissione Finanze della Camera e responsabile dei dossier economici per Italia viva quando afferma, secondo quanto riportato da il Fatto: “Italia viva ha detto in tutti i modi che non è d’accordo sul sistema tedesco. Vorrebbe fare questa discussione nelle riunioni e nei seminari (con numeri e idee), ma se proprio si insiste a volerla fare sui giornali, a noi va bene lo stesso”.

Comunque sia, lo schema prevedrebbe una formula destinata ad essere applicata orizzontalmente per qualsiasi reddito soggetto all’Irpef. Si supererebbero in tal modo gli scaglioni attualmente previsti, che sono cinque: aliquota del 23% per i redditi compresi tra 8.145 (limite alla “no tax area”) e 15 mila, del 27% per quelli compresi tra 15001 e 28.000, del 38% tra 28001 e 55000; del 41% tra 55001 e 75 mila e del 43% oltre i 75 mila.

Si otterrebbe quindi una semplificazione del calcolo, oggi reso leggermente più complesso dal fatto che il reddito finale deve essere scomposto nei diversi scaglioni ai quali applicare l’aliquota specifica. Indubbiamente un piccolo vantaggio, ma da qui a parlare di “riforma alla tedesca” ce ne vuole. Tanto più se si considera che la pressione fiscale in Germania è, seppur di poco, inferiore a quella italiana (41,6 % contro il 42,4%) ma con una differenza di Pil pari a circa il 92%. Cosa che, evidentemente, rende meno dolorosa la pur necessaria trasfusione di sangue. Sempre a Berlino l’aliquota varia da un minimo del 14 ad un massimo del 42 per cento. Con una “no tax area”, leggermente più alta di circa 9.000 euro. In Italia, invece, l’aliquota minima teorica è del 23%. “Teorica” si diceva: nei fatti, la realtà, è invece ben diversa.

Dai dati forniti dal Dipartimento delle Finanze del Mef (anno d’imposta: 2018 – dichiarazioni: 2019) risulta, infatti, che la percentuale minima di imposte sul reddito è stata pari al 3 per cento (redditi compresi tra i 7500 e i 10 mila) per poi salire progressivamente fino ad un massimo del 39,8 per cento per i redditi oltre i 300 mila euro l’anno. L’idea che traspare da queste indiscrezioni sarebbe, quindi, quella di ridurre ulteriormente le imposte fino ad un reddito compreso entro i 20 mila euro. Un beneficio che dovrebbe riguardare circa il 18% dei contribuenti.

Sui quali grava circa l’11% dell’onere complessivo relativo all’intero carico fiscale Irpef. Misura indubbiamente giacobina. Ma difficilmente quantificabile ai fini del ristoro individuale. Non vorremmo che tutto si riducesse a meno di 100 euro all’anno. Sempre sulla base dei dati ministeriali, è possibile tracciare la curva che descrive l’andamento del carico tributario per i diversi livelli di reddito. Si va da un minimo del 3 ad un massimo del 39,8 %.

Ed è una tendenza che risponde al criterio della progressività? Lasciamo ad altri una risposta che non ha, ovviamente, un valore oggettivo. Dipenderà dal sistema dei valori di cui ciascuno di noi è portatore. C’è comunque un retro-pensiero nelle intenzioni del governo? Si fa osservare che, in Germania, per i redditi superiori ai 260.532 euro all’anno, l’aliquota sale al 45%, mentre per quelli che restano al di sotto si paga un po’ meno che in Italia: 42% il 43%. C’è quindi da aspettarsi un ulteriore sbilanciamento della curva? Avere a propria disposizione la formula magica dell’algoritmo dovrebbe, appunto, servire proprio a questo.

Il mistero che la circonda, nemmeno fosse quello della Coca-cola, non lascia, quindi, ben sperare. Tanto più se si ha contezza della strategia comunicativa scelta dal governo. Annunci che risalgono più o meno a quest’estate, quasi ad aumentare il pathos. I dati relativi alla curva attuale, in effetti, mostrano alcuni sfasamenti che sarebbe bene correggere. L’aliquota effettiva per i redditi inferiori ai 20 mila euro mostra lo scarto maggiore tra teoria e pratica: nel senso che ad un’aliquota teorica del 23%, ne corrisponde una effettiva che arriva fino ad un massimo del 12,1%, per i redditi relativamente più alti. Subito dopo lo scarto aumenta a danno del ceto medio. Quello massimo rispetto ad un andamento lineare si ha intorno a redditi compresi tra 50 e 55 mila euro l’anno.

Quindi, come in un torrente carsico, si ritorna sott’acqua a beneficio dei redditi superiori ai 100 mila euro. Le variazioni, in genere, hanno una composizione di 2 o 3 punti percentuali. Un’operazione di restyling è quindi possibile. Ma bisogna giocare in modo corretto e non prendere a pretesto queste smagliature per pestare ancora di più chi già dà tanto. Non si dimentichi che l’1,6% dei contribuenti italiani, che godono di un reddito maggiore, contribuiscono per il 22 per cento all’Irpef incassato dallo Stato. Fino a che punto si potrà spingere ancora?


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