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L’ambasciatore cinese in Italia si fa lupo. E denuncia Pompeo (con minaccia)

“Chi semina vento, raccoglie tempesta”. Citando il noto proverbio italiano il portavoce dell’Ambasciata cinese a Roma ha invitato il “gracchiante” Segretario di Stato americano Mike Pompeo a mettere “fine al suo show il prima possibile”.

Non sembrano essere affatto piaciute alla diplomazia cinese le parole pronunciante dal capo della diplomazia statunitense dopo gli incontri di ieri con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Nella mia discussione con il premier Conte gli ho chiesto di fare attenzione alla privacy dei suoi cittadini”. E ancora: “Il Partito comunista cinese sta cercando di sfruttare la propria presenza in Italia per i propri scopi strategici, non sono qui per fare partenariati sinceri”.

I “PREGIUDIZI” DI POMPEO

Con una nota l’Ambasciata cinese ha accusato Pompeo di aver “nuovamente diffamato il Partito comunista cinese, attaccato senza motivo la politica interna della Cina e tentato di destabilizzare i rapporti tra Italia e Cina. Ci opponiamo fermamente e condanniamo con forza tali atteggiamenti”, si legge. Quelle del capo della diplomazia statunitense sono calunnie che “traboccano di pregiudizi ideologici e di ignoranza sulla Cina”, dice la rappresentanza di Pechino, pronunciate “con la scusa della tutela dei diritti umani, della libertà di religione e della cyber security”. Ma, si legge ancora, “la valutazione se la situazione dei diritti umani, la libertà religiosa e la cyber security in Cina sia buona o meno spetta a chi ha maggior diritto di parola in merito, ovvero gli 1,4 miliardi di cittadini cinesi e non certo a un qualunque politico straniero”.

Curioso sostenere che sotto un regime i cittadini siano liberi di criticare il regime stesso. Ma l’Ambasciata insiste e probabilmente seguendo la linea di Pechino nel negare la repressione degli uiguri nello Xinjiang dichiara: “I cittadini cinesi, appartenenti a tutti i gruppi etnici, godono oggi di un senso di soddisfazione, felicità e sicurezza senza precedenti”.

UN LUPO GUERRIERO A ROMA

L’aggressività è ormai da diversi mesi un tratto caratteristico della diplomazia cinese a Roma guidata dall’assertiva feluca Li Junhua (recentemente convocato in commissione Esteri della Camera dal presidente Piero Fassino dopo il caso Zenhua). In particolare con la crisi del coronavirus. All’inizio della pandemia l’Italia era finita nel mirino dei cosiddetti lupi guerrieri cinesi, ossia i diplomatici cinesi che sui social network sfidano (anche a colpi di fake news) l’Occidente, un orgoglio per il presidente Xi Jinping. Possiamo ricordare due casi in particolare: quello del video fake, rilanciato anche da Hua Chunyinh, portavoce del ministero degli Esteri cinese, per sostenere che gli italiani fossero usciti sui balconi a ringraziare la Cina e a cantare l’inno cinese; e quello del Global Times, megafono inglese del Partito comunista cinese, che distorcendo le parole del professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto ricerche farmacologiche Mario Negri, aveva sostenuto che il coronavirus sarebbe nato in Italia. Inoltre, non vanno dimenticate le campagne aggressive sui social (portate avanti anche con l’utilizzo di bot, come rivelato da Formiche.net).

Ma a distanza di poco tempo l’immagine della diplomazia cinese era apparsa particolarmente spigolosa e aggressiva. E così a fine maggio l’uomo di Pechino a Roma rilasciò un’intervista al Corriere della Sera per spiegare che l’etichetta di lupi guerrieri, a lui spesso appiccicata, non è “adeguata”: “Forse sarebbe una metafora più azzeccata parlare di ‘Kung Fu Panda’”. Così, su Formiche.net, ci eravamo chiesti se non fosse stato il flop a medio termine di quella strategia aggressiva a suggerire ai funzionari di Pechino in Italia di svestire i panni di lupi guerrieri per indossare quelli di paciosi panda.

IL PRECENDENTE DEL FLASH MOD LEGHISTA…

Ma poco più tardi, a inizio luglio, alla faccia della non ingerenza a cui Pechino spesso invita gli altri Paesi del mondo (più recentemente su Taiwan, isola considerata parte della Cina) l’Ambasciata cinese a Roma aveva protestato contro il flash mob organizzato dalla Lega per difendere Hong Kong. In quell’occasione la diplomazia cinese mise nel mirino direttamente il leader della Lega Matteo Salvini: “Tali politici, che avevano denunciato gli atti di violenza e criminalità che hanno avuto luogo sul territorio italiano e avanzato proposte volte a rafforzare le misure legislative in materia di ordine pubblico, di fronte alle deliberate violazioni della legge da parte dei violenti di Hong Kong, che sfociano persino in crimini di separatismo, fingono invece di non vedere e non sentire”, si leggeva nella nota. A cui risposero così il segretario della Lega e il responsabile del dipartimento Esteri del partito, Giancarlo Giorgetti: “L’ambasciata cinese non si azzardi a paragonare la Cina all’Italia. A Pechino non esistono partiti alternativi a quello comunista, l’opposizione è imbavagliata, a Hong Kong vengono arrestati perfino i ragazzini con inaudita violenza”.

… E QUELLO CON JOSHUA WONG

Un fatto simile era accaduto qualche mese prima, a novembre dell’anno scorso, quando l’Ambasciata protestò per la partecipazione di Joshua Wong, uno dei volti del movimento pro democrazia a Hong Kong, a un evento alla sala stampa del Senato, su invito del Partito radicale e di Fratelli d’Italia. I parlamentari bi-partisan che hanno preso parte all’iniziativa, aveva dichiarato allora l’Ambasciata cinese a Roma, hanno fornito “una piattaforma per un separatista pro-indipendenza di Hong Kong e supportato ‘la violenza e il crimine'”. Parole a cui rispose duramente il ministro Luigi Di Maio invitando il governo cinese a “rispettare le conferenze che approfondiscono le questioni di livello internazionale”, anche quando non sono di suo gradimento: “I legami commerciali con tanti altri Paesi non possono mettere in discussione il rispetto delle nostre istituzioni, del nostro Parlamento e del nostro governo”.

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