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Come cambia (e come dovrebbe cambiare) la sanità. Parla l’oncologo Filippo de Braud

Negli ultimi dieci anni sono quasi triplicati gli investimenti in oncologia, rendendo disponibili cure sempre più innovative ed efficaci. Con buoni risultati non solo sulla speranza di vita, ma anche sulla qualità della stessa. Ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto per le patologie refrattarie alle nuove terapie. Tutti i dati del Comparator report on cancer in Europe 2019 commentati da Filippo de Braud, professore di Oncologia medica presso l’Università di Milano e direttore del dipartimento di Oncologia medica ed ematologia della Fondazione Irccs, Istituto nazionale tumori Milano.

Sappiamo che la ricerca oncologica ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni. Quali sono i più importanti?

Per tracciare un’analisi dello scenario attuale bisogna partire da alcuni punti cardine. Il primo, chiaro a tutti, è che vogliamo guarire sempre più gente. Per farlo – ed ecco il punto due – bisogna in primis puntare sulla malattia guaribile e migliorare le percentuali di guarigione, quindi è cruciale la diagnosi precoce. Se è vero infatti che per alcune malattie lo screening tempestivo non risulta decisivo, per altre può essere fondamentale, come nel caso del tumore del colon, per citarne uno.

Poi?

La multidisciplinarietà, finalmente parte integrante del nostro sistema, che garantisce grandi risultati e che, attraverso la collaborazione fra diversi esperti – chirurgo, oncologo, radiologo – e un approccio non più statico ma dinamico, consente di intervenire prima e in maniera più organica e efficiente. Non da ultimo, ovviamente, le nuove terapie, come i nuovi farmaci a bersaglio molecolare o l’immunoterapia, che hanno rivoluzionato il trattamento di alcune neoplasie.

Il report testimonia un aumento delle terapie oncologiche orali. Lei crede che queste possano impattare positivamente sia sulla qualità della vita dei pazienti che sulle casse del sistema sanitario?

Dal punto di vista del paziente sono meno invasive e sgradevoli rispetto alle terapie endovenose. Riducono inoltre il numero accessi ospedale e, attraverso tecniche di telemedicina e telemonitoraggio, possono garantire controlli ed esami meno frequenti. Non credo, però, che possano essere considerate più economiche in quanto l’eventuale risparmio dovrebbe essere fatto su un’economia di sistema che è difficile da realizzare per la dinamicità con cui possono cambiare le indicazioni terapeutiche (come con l’introduzione dell’immunoterapia) e la mancanza cronica di saper fare pianificazioni a medio termine. Inoltre spesso non sono farmaci economici. Quando si tratta di farmaci biologici mirati ad alterazioni molecolari sono spesso molto efficaci e anche se non portano alla guarigione prolungano la vita dei pazienti, che però rimangono sempre in trattamento e quindi aumenta la prevalenza delle persone in cura e di conseguenza i costi per in Ssn. Cosa che, però, va vista come un pregio e non come un difetto, visto che l’obiettivo della cura deve essere sempre quello di curare.

Quindi non c’è alcun guadagno, da un punto di vista economico?

Probabilmente quello che deriva dalla minore ospedalizzazione e, da un punto di vista previdenziale, dalla maggiore produttività dei pazienti, che con una terapia poco invasiva spesso possono continuare a lavorare. Ma non oltre. Tra l’altro, come ho già detto, lì dove l’immunoterapia ha preso piede, i farmaci orali sono già stati messi da parte. Probabilmente un domani, quando e se ci saranno farmaci orali immunoterapici, allora il discorso potrebbe cambiare. Ma ribadisco che l’oncologia è un processo dinamico, e non si possono fare previsioni a lungo termine poiché ogni nuova scoperta spesso spariglia quelle precedenti.

Terapie personalizzate… A che punto siamo in Italia e quanto cambiano il volto delle cure oncologiche?

Nel nostro Paese registriamo buoni risultati, sia nell’implementazione che nell’uso. Quando parliamo di terapie personalizzate, però, dobbiamo declinarle in due modi differenti. Una terapia può essere personalizzata perché punta sul gene responsivo di una determinata malattia e da questo punto di vista le aziende hanno già abbondantemente iniziato a produrre fermaci che hanno come target bersagli molecolari specifici che vanno bene per percentuali anche minime di pazienti, che possono andare dal 40% fino all’uno per mille. In questo caso, dunque, la cura è personalizzata sulla malattia. L’alternativa è personalizzare la cura sulla persona, tenendo conto della storia medica del malato, della sua attitudine verso le cure e della logistica. Anche questo è personalizzare e garantisce un miglioramento della qualità della vita dei pazienti non indifferente.

Un esempio pratico?

Nello studio Panda, che abbiamo appena pubblicato, abbiamo dimostrato come nel trattamento degli over 70 con tumore al colon l’associazione di due farmaci dia pressappoco gli stessi risultati di una combinazione di tre farmaci dove il terzo è un chemioterapico che produce effetti collaterali non minori. Con ottimizzazione per i pazienti, ai quali non viene più somministrato un farmaco che dava tossicità, e per il sistema, che risparmia il costo del terzo farmaco.

Abbiamo letto sul documento che l’Italia è sotto la media europea per decessi causati da neoplasie e sopra la media per la sopravvivenza a cinque anni. A cosa si deve questo risultato?

Al nostro Servizio sanitario nazionale, che è molto efficace. Noi ci lamentiamo molto, ma viviamo in un Paese in cui tutti possono essere curati, anche persone con nazionalità straniera. Poi bisogna riconoscere che in Italia viene fatta una prevenzione non volontaria, che è quella dell’alimentazione, molto più sana di tanti altri Paesi europei. Inoltre, molte regioni stanno ottimizzando le attività di screening. Infine, abbiamo delle buone cure a disposizione di tutti, che non è l’unico fattore ma sicuramente fa la differenza.

Nel corso della pandemia più di una volta è stata avanzata l’ipotesi di un eccesso di risorse stanziate per l’oncologia, a danno di altre aree mediche. Lei cosa ne pensa?

Considerando che i tumori sono la prima causa di morte in Italia non penso ci si possa stranire. E, ad ogni modo, se parliamo di industria farmaceutica, e quindi di ricerca privata, è inevitabile che un’azienda investa in settori che garantiscono un maggior ritorno economico. Ma l’oncologia non è l’unico settore dove si è investito. Lo stesso è accaduto per la neurologia – pensiamo all’Alzheimer – dove però i risultati sono stati di gran lunga inferiori a quelli attesi, e nella cardiologia, dove invece si è appreso già da tempo che lo stile di vita e la prevenzione spesso ottengono risultati migliori dei farmaci.

Sappiamo che nella cura di alcuni tumori si registrano risultati molto positivi, con sopravvivenze a cinque anni oltre il 90% – come ad esempio prostata, del testicolo e mammella – mentre altri tumori – come pancreas, esofago e polmone – presentano esiti ancora scoraggianti, con sopravvivenze a cinque anni inferiori al 20%. A cosa si deve questa divergenza così ampia?

Per una domanda del genere serve una risposta onesta. Si tratta di malattie diverse che danno risultati diversi e che conosciamo, in un certo senso, diversamente. Il tumore al testicolo, ad esempio, da quando viene trattato con chemio platinum-based, i risultati sono ottimali. Per il cancro alla mammella, invece, dove l’immunoterapia ha fatto un buco nell’acqua, la terapia ormonale è molto efficace e infatti i migliori risultati recenti sono proprio da terapie ormonali. Il tumore alla prostata, invece, va trattato in base allo stadio della malattia: se nella fase iniziale, spesso viene solo tenuto sotto controllo, se si trova già in fase avanzata diventa difficile da curare. Quello che non è stato detto, invece, è che per tumori come il melanoma o il polmonare metastatico sono stati raggiunti risultati straordinari, raggiungendo una sopravvivenza a cinque anni al di sopra delle aspettative proprio grazie ai nuovi farmaci. Il pancreas, invece, presenta una contraddizione di termini che non riusciamo a comprendere appieno, non tanto legata alla cellula tumorale quanto al microambiente in cui si insedia. La stessa immunoterapia non funziona quanto avremmo sperato dal momento che si tratta di un tumore pieno di mutazioni ma non è immunogenico.

Consigli non richiesti alle istituzioni…

In primis, fare una pianificazione a medio termine cercando di capire che bisogna dare dinamicità ai processi. In secondo luogo, bisogna investire in ricerca, personale e infrastrutture. E poi capire che gli investimenti in sanità non sono costi, ma determinano sempre, seppur non nel brevissimo termine, un ritorno economico.

Nemmeno il Covid è bastato per capirlo?

Credo che il problema sia più strutturale. Abbiamo un sistema in cui i medici si legano agli ospedali dove lavorano, creandovi una sorta di familiarità e senso di appartenenza. Al contempo, però, l’amministrazione e la direzione generale delle strutture sanitarie cambia molto spesso, così come la politica, facendo venire meno una gestione della struttura che sia di lungo termine. Il vero problema è il messaggio della politica che si limita a guardare l’obiettivo di breve termine perché si dica che chi ha fatto, ha fatto bene. Poco importa se le conseguenze nel lungo periodo, quando la gestione è già cambiata, sono disastrose. E gli investimenti, per loro natura, devono essere lungimiranti, altrimenti sono solo spese. Si parla tanto di spesa farmaceutica, ma non ci si rende conto che la cattiva gestione amministrativa costa molto più dei farmaci.

Altri suggerimenti?

Sì, uno in particolare perché tocca con mano la qualità della vita dei pazienti. Siamo in un Paese nel senso di nazione, non in una federazione di regioni. Urge, dunque, una strategia comune sui punti cardine e su tutti i comparti che compongono la sanità, dalla gestione delle persone alla diagnostica, dalle linee-guida all’assistenza domiciliare. E un’altra: i pazienti vanno accompagnati. Sono persone che vivono una condizione di debolezza per cui non devono mai sentirsi soli e abbandonati. E il Paese non deve dimenticarlo.


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