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Se lo smart working dà la mazzata finale alla Pa. Scrive Cazzola

Nei mesi della Grande epidemia ho più volte espresso pubblicamente sui media opinioni ‘’riduzioniste’’ che non riguardavano, tuttavia, la gravità della malattia, ma la campagna allarmistica, implicita nelle misure di prevenzione adottate, che aveva provocato  un clima di panico nell’opinione pubblica inducendola  a considerare il contagio da Covid-19 come se fosse la sola causa di ogni possibile decesso.

Tutto sommato, però, quel clima da guerra nucleare è servito a realizzare un obiettivo importante: impedire il collasso del sistema sanitario che stava per essere travolto dal numero e dalla gravità dei ricoveri a fronte della inadeguatezze delle strutture e delle terapie.

Oggi tutti riconoscono che il sistema si è rafforzato (anche se sono venuti allo scoperto gli squilibri territoriali preesistenti) e che occorre tener conto delle sostanziali differenze che esistono tra la condizione con la quale viene affrontata la seconda fare e quella dei primi mesi dell’anno.

Abbiamo appreso, inoltre, che il Comitato tecnico-scientifico (CtS) non era favorevole al lockdown che fu decretato su tutto il territorio nazionale mentre era – e rimane attento – alle conseguenze devastanti che la chiusura obbligatoria di interi settori produttivi e dei servizi avrebbe provocato nell’economia.

Come nella prima fase, anche adesso i virologi – divenuti personaggi televisivi – non hanno le stesse opinioni sulla linea di condotta da seguire, ma tanti di loro si sforzano a valutare la situazione e a presentarla sulla base dei dati effettivi e non secondo quanto viene percepito. In un Report sulle caratteristiche dei deceduti positivi al coronavirus dell’Istituto Superiore di Sanità, aggiornato al 4 ottobre, emergono aspetti importanti per inquadrare gli effetti della pandemia.

L’analisi si basa su un campione di 36.008 pazienti deceduti e positivi all’infezione da Sars-Cov-2 in Italia. Per quanto riguarda i dati demografici l’età media è pari a 80 anni. Le donne sono 15.365 (42,7%). L’età mediana dei pazienti deceduti positivi a Sars-Cov-2 è più alta di oltre 25 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 82 anni – pazienti con infezione 56 anni).  Le donne decedute dopo aver contratto infezione da Sars-Cov-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 85 – uomini 79).

Il trend dell’età media dei pazienti deceduti positivi a Sars-Cov-2 per settimana di calendario, a partire dalla 3° settimana di febbraio 2020 (la data del primo decesso risale al 21 febbraio 2020) è andata sostanzialmente aumentando fino agli 85 anni (1° settimana di luglio) per poi calare leggermente.

Quanto alle patologie preesistenti, diagnosticate dai pazienti deceduti prima di contrarre il contagio (il dato è stato ottenuto da 4400 deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche), il loro numero medio in questa popolazione è di 3,4. Complessivamente, 160 pazienti (3,6% del campione) presentavano zero patologie, 599 (13,6%) presentavano 1 patologia, 874 (19,9%) presentavano 2 patologie e 2767 (62,9%) presentavano 3 o più patologie. Nelle donne (1603) il numero medio di patologie osservate è di 3,6; negli uomini (2797) il numero medio di patologie osservate è di 3,3.

È interessante notare nel report Iss, che, al 4 ottobre 2020, sono 407, dei 36.008 (1,1%), i pazienti deceduti Sars-Cov-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 89 di questi avevano meno di 40 anni (59 uomini e 30 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 11 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri pazienti, 64 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 14 non avevano diagnosticate patologie di rilievo.

Il dato non è aggiornato, ma è utile mettere a confronto – nel report – le caratteristiche decessi nei 2 trimestri marzo-maggio e giugno-agosto 2020. Per questa analisi sono stati selezionati solo i pazienti deceduti in ospedale e nei cui certificati di morte era riportato il Covid-19 tra le cause responsabili del decesso).

I dati erano rappresentativi del 9,8% dei deceduti tra marzo e maggio e del 11,9% dei deceduti tra giugno e agosto. Nel secondo trimestre aumenta leggermente l’età media dei decessi e la proporzione di donne; aumentano i decessi di persone con 3 o più patologie preesistenti e diminuiscono quelli con meno patologie o nessuna: ciò sembra indicare che nel secondo periodo i decessi riguardano persone più anziane e con una condizione di salute preesistente peggiore rispetto ai decessi relativi al primo trimestre.

Ma a chiarire ancora meglio l’effettiva situazione è stato il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, ospite a Mezz’ora in più su RaiTre. “Che ci sia stata un’accelerazione, negli ultimi 10-15 giorni, del numero dei contagi in tutta Italia è un dato di fatto. Ma andrei cauto prima di parlare di crescita esponenziale. Non siamo in questa situazione”.

“È giusto guardare ai numeri con massima attenzione e allerta, ma non siamo in una situazione né di panico né di allarme. Degli 11mila casi registrati ieri, solo un terzo è sintomatico. Nella fase critica, a marzo, individuavamo tutti soggetti sintomatici”. E ancora: “Siamo a quasi 700 persone ricoverate in terapia intensiva, un numero che non è paragonabile al momento del picco” della scorsa primavera. Inoltre, ha osservato il professore, l’Italia è “un Paese con tasso di positivi in rapporto ai tamponi tra i più bassi d’Europa. La situazione sanitaria non è comparabile con marzo”, ha ribadito.

“Non credo che dobbiamo arrivare” a un coprifuoco serale per contrastare la diffusione dei contagi da Coronavirus, “certo un occhio sugli assembramenti forse va dato, magari implementando i meccanismi di sorveglianza”. Per Locatelli, “in Italia abbiamo imparato a proteggerci” e “abbiamo una formidabile capacità di fare tamponi”. “Io credo che le Regioni abbiano tutta una serie di piani per attivare le rianimazioni. Non sono stati attivati perché non ce n’è stata l’esigenza. Abbiamo 700 terapie intensive su 6.600 adesso”.

Sempre secondo il presidente del Cts, è “indubitabile che ci sia stata forte crescita” dei numero di contagi negli ultimi giorni, non si può parlare di crescita esponenziale’’. Di conseguenza, non è necessario chiudere le scuole. “Prima la scuola – ha sottolineato. La scuola, insieme al lavoro e alle attività produttive, è la priorità. É stato fatto uno sforzo straordinario e va tenuta aperta. Il contributo della scuola nella diffusione del virus non è assolutamente d’impatto’’.

E il vaccino li hanno chiesto? “Probabilmente lo avremo disponibile nella primavera del 2021”. “Fino ad allora dobbiamo convivere in modo da minimizzare l’impatto del Coronavirus sulla vita degli italiani”. Quanto al rischio di una nuova chiusura generalizzata del Paese, Locatelli ha commentato: “Voglio sperare che non arriviamo a lockdown su scala nazionale, si sta lavorando a questo, anche per contemperare la tutela della salute con il mantenimento delle attività produttive nel Paese”.

Se il numero di contagiati da Coronavirus arriverà o arrivasse in Italia a quota 600mila, allora sì che si potrebbe parlare di pandemia “fuori controllo”, ha chiarito Locatelli. Sono diversi i fattori da considerare prima di poter parlare di pandemia fuori controllo: “occupazione posti letto, contact tracing”. Oggi c’è una linea di pensiero che si sta sviluppando in ambito europeo secondo cui “il sistema rischia di andare fuori controllo quando c’è circa l′1% di popolazione infetta, in Italia quindi 600.000 persone”. Questa ”è una variabile troppo influenzata da una serie di strategie che prevengono questo scenario, i modelli matematici sono utili ma – ha tenuto a sottolineare Locatelli – bisogna tenere in considerazione i dati che possono interferire. Ci sono poi anche dei contesti che vengono a essere influenzati dai mesi di febbraio e marzo”.

Mi sembrano considerazioni molto nette, le stesse contenute nell’intervista a Il Foglio di Agostino Miozzo, componente anch’esso del Cts, secondo il quale una buona organizzazione può aiutarci ad evitare di correre un rischio che non possiamo permetterci: occuparci di  come non morire di Covid senza occuparci di come non morire di fame’’.

Tutto ciò premesso, a proposito degli ultimi provvedimenti assunti con Dpcm, le indiscrezioni raccontano che il presidente Conte ha resistito alle richieste di maggiori chiusure provenienti da alcuni ministri. Del resto, anche i divieti recentemente adottati presentano, ad avviso di chi scrive, parecchie perplessità.

Purtroppo non siamo a conoscenza delle modalità con cui si contraggono i contagi. Si dice che ben 4/5 avvengono nell’ambito familiare. Ciò significa, allora, che il virus viene introdotto da fuori. E corre la voce che i nipoti scapestrati vanno a fare la movida, contraggono il contagio da asintomatici, rincasano ed infettano i nonni (che nella maggioranza dei casi vivono a casa loro). Le analisi – fatte come Dio vuole – portano a ritenere che i contagi si diffondano negli assembramenti.

È parere acquisito tuttavia che i luoghi chiusi (scuole, ambienti di lavoro, locali pubblici, negozi, ristoranti, ecc.) siano più sicuri perché organizzati e predisposti secondo le disposizioni di salvaguardia. Non ha senso, allora, chiudere (in modo anticipato) i luoghi sicuri per evitare che le persone li frequentino in condizione di sicurezza.

Come ha affermato il prof. Miozzo per ridurre i flussi degli studenti alla mattina non è necessario chiudere le scuole ma è sufficiente studiare i flussi e cambiare gli orari di accesso. Una misura che può essere assunta – a mio avviso – anche in modo radicale: dividendo i flussi in parte alla mattina, in parte al pomeriggio. In questo modo si distribuirebbe meglio la pressione sui mezzi pubblici. Non ci sarebbe bisogno di nuovi locali e nuovi docenti. Anche con il Dad occorre usare prudenza e buon senso. Senza gettare il bambino insieme all’acqua sporca del bagnetto, ma pure senza affidarsi troppo a prime esperienze fondate sulla buona volontà di dirigenti scolastici e docenti.

Quanto poi all’obbligo di smart working in percentuali di rilievo nella Pa, non prendiamoci in giro: ciò significherà chiudere gli uffici e lasciare il personale a casa senza avere nulla da fare. Alla faccia della semplificazione amministrativa. Per semplificare la Pa occorre garantirsi, in primo luogo, che ci sia una Pa.

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