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Vi racconto il Def, tra ambizione e realtà. L’analisi di Zecchini

Dopo mesi di limitazioni alle attività tutti gli italiani si augurano un’uscita rapida dalla crisi economica in cui sono piombati ed un ritorno a una crescita durevole. Di questa aspirazione si fa interprete il governo con l’approvazione della Nota di aggiornamento del Def, a cui dovrebbe seguire tra qualche settimana la Legge di Bilancio che ne esplicita le implicazioni finanziarie.

Il tono di fondo del programma governativo è di grande fiducia nella capacità delle misure di spesa e delle riforme programmate per rilanciare l’attività d’investimento delle imprese (più che della Pa), e per questa via di imprimere una spinta ai consumi privati, che per il loro peso nella formazione del prodotto nazionale fanno da vero traino alla crescita.

In sostanza, un’accelerazione della propensione a investire in macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto ed infrastrutture, che è sollecitata da vari incentivi ed investimenti pubblici, a cui si somma la dilatazione notevole della spesa pubblica corrente primaria, in particolare per prestazioni sociali, pensioni e retribuzioni, oltre che per attenuare l’impatto della recessione sui lavoratori e sulle imprese. Uno stimolo alla crescita dovrebbe derivare anche dalle riforme strutturali, che sono ritenute in grado di migliorare la competitività e resilienza delle imprese.

Complessivamente nel prossimo triennio più della metà della formazione del reddito del Paese sarebbe mediata dal soggetto pubblico, come mostra l’ascesa del rapporto tra spesa pubblica e Pil, che dal 48,6% del 2019 si impennerebbe al 58,5% nell’anno in corso per scendere appena sotto il 50% soltanto nel 2023 (49,1%). Le esportazioni al netto delle importazioni, invece, avrebbero un ruolo secondario.

C’è da chiedersi se la gran fiducia in questi interventi per la crescita è ben riposta, oppure si tratta di traguardi raggiungibili soltanto nel lungo periodo con misure dotate di maggiore incisività d’impatto. Per misurare la distanza tra giuste ambizioni e realtà del Paese bisogna, quindi, esaminare l’effettivo potenziale di stimolo nel generare investimenti e consumi, andando oltre il semplice rimbalzo della produzione dovuto al ripristino di un livello di attività in linea con l’andamento della domanda, una volta libero dalle restrizioni in funzione anti-Covid.

Le simulazioni del Mef mediante il modello econometrico Item stimano che i due decreti sulla crescita già adottati producano una maggiorazione del Pil di 2,5 punti percentuali nel 2021 e di dimensioni decrescenti nel biennio successivo. Allo stesso modo il Governo ipotizza di ottenere ulteriori incrementi come risultato dei progetti e delle riforme annunciati, che dovrebbero essere finanziati dalle risorse del Recovery Fund. Ma questi modelli non riescono ad incorporare le tante rigidità e disfunzioni del sistema italiano e sono solo esercizi teorici che mal si confrontano con la realtà sul campo.

Come incorporare le complessità delle procedure per realizzare investimenti pubblici ad iniziare dalla carenza di progetti ad alto tasso di rendimento per il mondo produttivo, ovvero che ne potenziano le esternalità positive di cui appropriarsi per sostenere la competitività? Certamente si potrebbero completare le opere già iniziate e ferme per insufficienza di fondi o per contenziosi, ma sempre muovendosi entro un dedalo di permessi e regolamentazioni che ne allungano i tempi smisuratamente. Per i maggiori progetti si è visto che i tempi di completamento superano il decennio. Per individuare nuovi progetti validi economicamente e socialmente si è costituito un apposito nucleo per la progettualità, ma si è ancora nelle fasi iniziali. Altre disfunzioni sono da mettere in conto sui versanti della burocrazia, giustizia e sicurezza sul territorio.

Le semplificazioni finora disposte non sono tali da accorciare significativamente i tempi, né da evitare i lunghi contenziosi che di solito accompagnano le gare di appalto. Le soluzioni adottate ed entrate in vigore non sono state ancora provate nella realtà operativa e quindi non consentono di stabilire la loro efficacia rispetto all’obiettivo di snellire e velocizzare. È tuttavia chiaro che non si tratta di alleggerire il peso della regolamentazione, ma di accorciare di poco i tempi. Analogo approccio per la giustizia, a cui è dedicata meno di mezza pagina nella Nadef, mentre non si precisa nulla sulla promessa riforma organica del sistema giudiziario.

Un impulso alla crescita è atteso dalla digitalizzazione e dalla transizione verde. L’avanzamento sul primo fronte dipende dall’estensione della rete ultralarga, dallo sviluppo del 5G e dalla formazione di massa nel digitale, sviluppi questi le cui premesse non sono incoraggianti. La rete unica è ancora in gestazione e fino a metà 2021 è improbabile che sia operativa e quindi gli investimenti relativi tarderanno a materializzarsi. Il 5G è agli albori e trova impegnato solo un ristretto numero di grandi società. La formazione di massa è tutta da organizzare e promuovere per la moltitudine di italiani e di Pmi. Il capitolo dedicato all’istruzione è pieno di buone intenzioni e programmi; tuttavia, non contempla la necessità di modificare decisamente i programmi scolastici e di dare una nuova formazione ai docenti.

Lo svecchiamento delle conoscenze degli insegnanti è imprescindibile se si vuole formare i giovani alla nuova realtà della pervasiva rivoluzione tecnologica, che investe tutti i campi del sapere e della vita sociale. La transizione verde del sistema produttivo è considerata soprattutto nei termini dello snellimento delle autorizzazioni a fini ambientali, particolarmente in campo energetico, mentre non si considera il consistente aggravio di costi per le imprese per effettuare i necessari investimenti e per attuare un’economia circolare.

Tra le riforme per la crescita si tralascia la promozione della concorrenza, sebbene raccomandata dalla Commissione europea, e si punta sulla riforma delle imposte sui redditi. Questa ha intenti dichiaratamente redistributivi a favore della classe media, spostando il carico sia sulle classi superiori, nonostante siano già molto più intensamente tassate, sia sui consumi che riguardano tutti, con ripercussioni sull’inflazione. Ben difficilmente la pressione fiscale complessiva si attenuerà rispetto al livello del 2019. Nulla si dice, invece, sull’alleggerimento della tassazione delle imprese, né su come fronteggiare la concorrenza fiscale di paesi dell’Ue che applicano sulle stesse prelievi minori.

Sulla riforma fiscale poi aleggiano i dubbi sulla sua copertura finanziaria negli anni. Inizialmente si sfrutta la fungibilità degli usi della moneta, che permette di dirottare sul Recovery Fund spese ordinariamente coperte dalle entrate fiscali per destinare le rimanenti risorse alla copertura della riforma. Tuttavia, una volta esaurita questa possibilità, la copertura è affidata alle maggiori entrate che deriverebbero dall’ipotetica maggior crescita generata. Una vera scommessa sull’efficacia della strategia economica e sulla capacità di attuarla.

Nel complesso, gli effetti positivi delle misure considerate si avvertiranno solo tra diversi anni e in misura graduale, come avvenuto con le riforme dei governi Monti e Renzi. Nel frattempo, gli unici impulsi effettivi alla crescita deriverebbero dagli incentivi straordinari all’edilizia privata e ai progetti innovativi previsti dal programma Industria 4.0. Questi investimenti, nondimeno, si materializzano se si affermano prospettive di una forte ripresa della domanda dopo la brusca frenata dei trimestri correnti.

Molto dipende dalla permanenza dei numerosi sostegni al reddito di tipo assistenziale, come la Cassa integrazione straordinaria, che sono stati varati ed estesi nel tempo, nonché dal miglioramento delle prospettive occupazionali. Si è quindi di fronte a un delicato concatenamento e bilanciamento di effetti, che poggia in prima istanza sulla regressione della pandemia in tempi brevi ed in ultima sul sostegno ai conti pubblici derivante dai fondi europei e dalla Bce. Entrambi sono fondamentali nel permettere una strategia economica che comporta una finanza pubblica sempre più in deficit e un debito pubblico che straripa al 158% del PIL e non scende sotto il 150% nemmeno nel 2023.

Se si considera che il governo si prefigge di portare il debito soltanto entro la fine del decennio su livelli meno insostenibili, ovvero attorno al 130% del Pil, lo scenario più probabile è che dopo un consistente rimbalzo “tecnico” della produzione dal profondo della recessione, la crescita annua tornerà su ritmi molto graduali, decisamente sotto l’obiettivo governativo del 3%, e sempre ostaggio della benevolenza di Bruxelles e di Francoforte.

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