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Assalto finale a Makalle. Buio sulla crisi etiope

La crisi umanitaria, il rischio della diffusione epidemica, l’instabilità regionale: la guerra civile in Etiopia arriva alla “fase finale”. Il premier Abiy muove le truppe verso la capitale del Tigray

“Sono profondamente preoccupato per il rischio di violenza contro i civili, compresi potenziali crimini di guerra, nei combattimenti intorno a Makalle in Etiopia. I civili devono essere protetti e l’accesso umanitario deve essere aperto. Entrambe le parti dovrebbero iniziare immediatamente il dialogo facilitato dall’Unione Africana”: il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca nominato dal presidente eletto Joe Biden dedicava due giorni fa alla crisi etiope la sua prima dichiarazione pubblica – via Twitter – a conferma che la situazione è al centro degli interessi internazionali, pure statunitensi.

Dal 4 novembre, inizio dell’offensiva delle Forze armate contro i ribelli del Tigray, sul Paese c’è un blackout che ha oscurato le telecomunicazioni: diventa complicato verificare le notizie, diffuse a singhiozzo e spesso frutto di campagne di propaganda e infowar. Tuttavia, quel che è chiaro è che sono scadute le 72 ore di ultimatum che il premier Abiy Ahmed aveva dato ai leader del partito del Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf) – il movimento armato del Tigray – ed è scattata l’offensiva finale per prendere Makalle. Una situazione su cui l’Onu condivide le preoccupazioni di Jake Sullivan, il consigliere di Biden, perché possibile che l’avanzata governativa venga protetta con pratiche brutali. Scudi umani per esempio, dicono le Nazioni Unite.

Abiy Ahmed garantisce che l’ingresso a Makalle sarà ordinato e sicuro. L’ex premio Nobel per la Pace dice in un comunicato diffuso con un tweet: “In questa fase finale grande cura sarà messa per proteggere i civili innocenti, tutti gli sforzi saranno fatti per assicurarsi che la città non sia gravemente danneggiata”. Nella densamente abitata capitale della provincia tigrina vivono 500mila persone, il rischio di vittime civili è enorme. L’Onu – che ieri ha avuto una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza sulla crisi nel Corno d’Africa – parla di profughi già in fuga, ma anche di armi distribuite alla popolazione: le Tplf potrebbero aver intenzione di scatenare contro le forze del governo una guerriglia cittadina.

Da un mese le 600mila persone che nell’area dipendono dalle razioni umanitarie delle Nazioni Unite non ricevono assistenza; ci sono in totale 6milioni di abitanti della provincia etiope a rischio crisi umanitaria, con la possibilità che la situazione si espanda all’intera regione (come già rischiato con il lancio di missili tigrini contro Asmara). I campi profughi di Adi Harish e Mai Aini, che ospitano anche migliaia di profughi eritrei, sono isolati a causa dei combattimenti nella zona che impedirebbero l’ingresso con acqua e viveri dell’Unhcr/Acnur e di Arra (l’agenzia per i rifugiati etiope).

Quarantamila somali sono scappati invece in Sudan, dove al confine le unità militari governative etiopi cercano di impedire la fuga ai propri concittadini. La questione dei profughi dà di per sé la dimensione del riflesso regionale, dove multiple crisi si sommano – e la diffusione del Covid diventa un ulteriore devastante fattore (“Impossibile mantenere le social distancing qui sul campo”, ha detto alla Associated Press Mohammed Rafik Nasri, dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite).

Sulla situazione pesano anche ombre di interferenze esterne, che Abiy Ahmed ha respinto: si è parlato per esempio di droni emiratini che stavano colpendo il Tigray dando supporto alle forze governative – gli Emirati Arabi Uniti hanno 92 progetti di investimento in Etiopia nei settori dell’agricoltura, dell’industria, dell’immobiliare, della sanità e dell’estrazione mineraria; Abu Dhabi, sempre più vocata alla geopolitica, ha espresso preoccupazione per il conflitto etiope e chiesto la stabilizzazione nel Corno d’Africa (un ambito che per gli emiratini è strategico).

Makalle è rimasta una roccaforte del Tplf da quando il partito ha preso il potere a livello nazionale a capo di una coalizione nel 1991: sebbene Abiy Ahmed, il primo oromo a guidare il governo (simbolo non troppo recondito del desiderio di rivalsa di una maggioranza per anni oppressa) abbia promesso riforme politiche idealiste per stabilizzare le differenze interne al paese, la sua azione politica non ha avuto troppo successo e quanto sta succedendo segnale che l’Etiopia si sta dirigendo verso una guerra civile etnica.

Mentre il primo ministro invitava la leadership tigrina ad arrendersi per prevenire l’assalto alla capitale del Tigray, i suoi militari parlavano di un’azione “senza pietà” contro i nemici e molti leader della regione ribelle si sono arroccati in remoti nascondigli nelle montagne e nelle gole della regione da cui coordinare la guerriglia.

(Foto: Unhcr/Hazim Elhag, profughi etiopi che attraverso il fiume Tekeze al confine col Sudan)


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