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70 anni di ricordi. Così sono diventato Carlo Verdone

Nel giorno del suo 70esimo compleanno, Verdone ripercorre, per Formiche.net, la sua vita privata e pubblica. “Venire al mondo il 17 novembre poteva portare sfortuna. Per questo aggiunsero Gregorio dopo Carlo…”. L’esordio al cinema lo deve “tutto a Sergio Leone” e considera “David Lynch un genio del cinema”. Tra i film da salvare c’è “Ordet” (1955, C. Th. Dreyer) “film con una carica spirituale senza pari”. Se i politici deludono “facciamo governare i filosofi”. Leggi l’intervista esclusiva di Eusebio Ciccotti

Il 25 giugno del 1950 la Corea del Nord invadeva la Corea del Sud. L’Onu denunciava il grave fatto. Il mondo, dopo appena cinque anni dalla fine della tragica Seconda Guerra Mondiale, con le radiazioni atomiche ancora attive in Giappone, era sull’orlo di un’altra guerra che vedeva fronteggiarsi, attraverso la “guerra di Corea”, la Cina (appoggiata dal Urss) e gli Usa e l’Occidente. Si rischiava una terza guerra mondiale. Sua madre, la professoressa di lettere Rossana Schiavina, aveva in grembo il piccolo Carlo che sarebbe nato il 17 novembre 1950.

Foto Archivio Carlo Verdone

Come sua madre le raccontava quel delicato periodo storico? Ci può estrapolare, dalla sua cineteca mentale privata, un ricordo di sua madre, tra l’altro esperta di musica lirica?

Gli anni Cinquanta deve essere stato un bel decennio. L’Italia che si rimetteva in moto dalle macerie della guerra e un grande spirito di collaborazione univa alla fine tutti gli italiani. Ormai si sapeva che la mia nascita doveva avvenire in novembre, ma tutti avevano una gran paura che capitasse il 17 che era un venerdì. Mese dei morti in più 17, numero nefasto, più venerdì, giorno della morte di Cristo. Le probabilità sono scarse diceva la levatrice, signora Pazzaglini. E invece, colpo di scena, nasco il giorno che non desideravano. E fu così che ci fu una riunione in famiglia per addolcire quella “negatività”. Mia nonna Fernanda consigliò di aggiungere al Carlo, il Gregorio. Quindi, il mio vero nome è Carlo Gregorio Verdone. E questo perché nella Roma popolare il nome Gregorio è associato al sedere. Chi “ha sedere” è ovviamente fortunato. Alla fine credo che l’intuizione di mia nonna mi abbia realmente giovato, fino ad ora, nella vita. Questo mi fu raccontato da mia madre. Mia madre è stata la donna più amorevole che mi potesse capitare. Anche se la mandai, come lei mi disse, in esaurimento nervoso dopo la mia nascita. Non dormii per otto mesi, non facendo dormire né lei né mio padre. Mio padre cambiò stanza, mia madre cambiò città. Finì protetta ad Anzio da amici dove fece un mese intero di sonno, lasciandomi con i nonni e una governante. Ma stava impazzendo poverina.

Suo padre, il professor Mario Verdone*, dirigente del Centro Sperimentale di Cinematografia, nel 1948 come giornalista, dopo l’accoglienza tiepida di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, organizza una proiezione del film a Parigi, tramite suoi amici critici cinematografici francesi (Jean Jacques Auriol). Si recano a vederlo uomini di cinema e intellettuali, René Clair, Jean Paul Sartre, Jean Cocteau, Georges Sadoul, ecc. Applausi in piedi. Boomerang positivo in Italia, poi successo planetario. Sempre nel 1948 suo padre, a Roma, è il primo a tenere lezioni di “Storia del cinema” in una università italiana. Quando lei, da grande, scoprirà che suo padre Mario era così attivo nel mondo culturale e artistico sin da giovane, cosa ha pensato? Riuscirò come lui?

Capivo che i miei genitori avevano molti interessi culturali. Frequentavano gente importante nel campo dell’arte, della critica cinematografica, della musica, ma fino a 18 anni non mi sono realmente interessato al cinema. Per me era intrattenimento. Solo quando mio padre mi regalò una tessera del Filmstudio (famoso cineclub romano) mi avvicinai sempre di più al cinema. Al punto che iniziai a girare dei film in super 8 sperimentali. E a poco a poco il cinema diventò una mia enorme passione.

Anche se siamo “grandi” sentiamo sempre la mancanza dei genitori. In quali circostanze vorrebbe avere accanto, per un minuto, mamma Rossana e papà Mario? Per chiedere loro cosa?

A loro chiedo solo una cosa, spesso nel silenzio che precede il sonno, di star vicino ai miei figli, alla mia famiglia. Di proteggerla. Solo questo chiedo.

I suoi ricordi dell’infanzia, anni Cinquanta…

Foto Archivio Carlo Verdone

L’asilo, le elementari dalle Suore di Nevers, il cestino preparato da mia madre per il pranzo nel refettorio. I gatti ai quali dovevo portare da mangiare al Teatro di Marcello, il Gianicolo con il teatrino di Pulcinella, i tiri col pallone a Villa Sciarra. Le corse sul bel terrazzo romano nella mia casa paterna. Immagini in bianco e nero indelebili. Meravigliose.

Inizi anni Sessanta. Nelle nostre case è arrivata la Tv. Ma il salotto dei professori Verdone e Schiavina è pieno di artisti e intellettuali.

Mia madre frequentava molti musicisti e direttori di orchestra, essendosi diplomata in pianoforte a Santa Cecilia. C’erano spesso Severino Gazzelloni, Silvano Bussotti, Franco Ferrara, Pierluigi Urbini e tanti altri. Nel settore cinema tanti critici come Ugo Casiraghi, Luigi Chiarini, Glauco Viazzi, Guglielmo Biraghi e altri ancora. Senza contare Federico Fellini, Alessandro Blasetti, Ettore Scola, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini. Era l’epoca dei salotti e a casa nostra il salotto era assai importante. Tutto questo mi ha aiutato ad avvicinarmi alla cultura in senso assai ampio.

Il tempo libero e i giochi con i suoi genitori e i fratelli.

Chi giocava veramente erano i miei genitori. Spesso facevano degli atti unici teatrali scritti da mio padre. Ed insieme con gli amici immaginavano un atto unico tra D’Annunzio e la Duse o “Assunta Spina”. Ovviamente in chiave comica. Era molto divertente vedere dei genitori diventare quasi dei ragazzi. E per noi figli era confortante avere una famiglia che amava divertirsi in modo intelligente e folle nello stesso tempo.

Ecco l’impegno delle scuole superiori. Il liceo, gioie e piccoli dispiaceri. (Docenti e compagni fonte di ispirazione per le imitazioni…).

Forse capii che avevo un talento comico proprio a scuola. Imitavo perfettamente professori e compagni di classe. E avevo così tanto successo che riuscivo perfino a far saltare l’ora di fisica e chimica, tanto si divertivano gli stessi professori di quelle materie. Ma non ero bravo al ginnasio. Fui subito bocciato per distrazione ed indisciplina. Mio padre mi punì severamente. Per poi perdonarmi e comprarmi addirittura una batteria, strumento che tanto amavo.

A metà del decennio dei Sessanta giungono i Beatles per un concerto al cinema Adriano di Roma. L’unica volta in Italia. E il papà professore, la stupisce…

Un pomeriggio di giugno mio padre entrò in camera mia. Stavo studiando e mi colpì perché con tono autorevole mi disse che aveva preso due biglietti per l’Adriano dove il 27 giugno 1965 si sarebbero esibiti i Beatles. Io non riuscivo a crederci. Era il mio gruppo preferito. Con tono solenne mi disse: “Ho preso due biglietti per i Beatles. Dobbiamo andarci perché è un evento culturale e sociale molto importante. Dobbiamo renderci conto di cosa sta succedendo nel mondo musicale dei giovani”. Io saltai dalla gioia. E quella sera fu indimenticabile. Lo spettacolo durò quaranta minuti ma resterà nella mia memoria per tutta la vita. Mio padre portandomi all’Adriano mi fece capire che persona straordinaria fosse. Un uomo maturo che si mette in fila per prendere per lui e il figlio due biglietti per i Beatles è un uomo non solo intelligente, ma anche un grande, unico genitore. Curioso sempre di tutto nel mondo culturale.

Foto Archivio Carlo Verdone

Siamo intorno ai vent’anni. Lei gira dei corti sperimentali. Ci parli dove l’hanno poi condotta quei cortometraggi.

Quando frequentavo il Filmstudio di Roma ero molto attratto dal cinema underground, sperimentale. E così comprai da Isabella Rossellini una cinepresa Bolex con macro zoom. Girai tre poemetti visivi fatti di immagini psichedeliche e musica elettronica. Con uno di questi dal titolo “Elegia Notturna” vinsi un premio importante a Tokyo. Fu grazie a questo premio che mio padre mi spinse a far vedere a Roberto Rossellini questo corto per avere un giudizio. Rossellini rimase stupito e mi sollecitò a fare domande di ammissione per il corso di regia al Centro Sperimentale. Passai l’esame e nel 1974 feci il saggio di diploma tratto da un raccontino di Anton Čechov, “Anjuta”.

Il diploma di regia al Centro sperimentale di Cinematografia non garantisce però il lavoro nel cinema professionale, carriera dura. Negli Ottanta trionfava il genere commerciale, il cinema d’impegno anni Sessanta e Settanta aveva terminato la sua carica innovativa; il cinema umoristico non graffiava più come la commedia all’italiana del boom. Difficile rinnovare un genere. Lei, però, forse senza volerlo, ci riuscì. Guardandosi intorno, con curiosità e attenzione sociologica, soprattutto osservando le nuove generazioni…

Quando ebbi successo come attore di monologhi e scenette in Tv con “No Stop”, Sergio Leone volle conoscermi. E comprese che potevo avere un talento anche nel cinema. Mi prese sotto la sua protezione e mi aiutò a montare un film che dovevo pensare, dirigere ed interpretare io. Devo tutto a Sergio Leone. “Un Sacco Bello” nel soggetto è mio. Tutto quello che Roma mi aveva ispirato nella mia giovinezza con la sua poesia, con i suoi tipi, con la sua atmosfera lo trasferii in “Un Sacco Bello”. Nel film vi era, penso, un nuovo modo di guardare la realtà e di fermarne la sua poesia. Fu una grande prova d’attore e credo anche di regia. Fu la fine delle commedie maschiliste e delle donne oggetto. E il trionfo di una solitudine piena di poesia.

Come si è formato il suo bagaglio culturale? Da sua madre, credo, lei abbia preso l’amore per la lirica e per gli autori greci e latini. Da suo padre l’amore per il cinema, il teatro, l’arte figurativa… Mi corregga.

Mia madre mi ha aiutato a capire bene l’apparato umano che ruotava intorno al nostro quartiere, vicino Campo de’ Fiori. Mi ha contagiato nell’uso dell’ironia e del dettaglio comico osservato nelle persone più banali. Ma soprattutto era una mia grande sostenitrice. Sapeva che sarei diventato un attore. E che lo avrei fatto per tutta la vita. Mi ha anche fatto conoscere la musica classica nelle migliori direzioni ed esecuzioni. Quindi se oggi amo la musica a 360 gradi lo devo al suo insegnamento. Mio padre mi ha educato allo stupore verso il bello che ho imparato a conoscere grazie a lui.

Vorrei che lei dicesse ai lettori, e agli aspiranti autori di cinema, chi sono quei registi dai quali ha preso suggerimenti di stile.

Non saprei rispondere perché ora un regista ora un altro mi hanno trasmesso immense emozioni. Sono tanti questi autori e forse, inconsciamente, con qualcuno c’è un piccolo rimando. C’è Germi, il primo Fellini, Pietrangeli, alcuni film di Risi

Può definire il suo cinema?

Tic, difetti, mitomanie, megalomanie, inadeguatezze, fragilità della gente comune.

Costretto a portare con sé solo tre film, quali sceglierebbe e perché?

“La dolce vita”, perché fu un affresco autentico e coraggioso di un periodo storico e sociale in grande mutamento. “Ordet”, perché fu un film di una carica spirituale senza pari. Austero, rigoroso e misterioso. “L’ultimo spettacolo”, per la immensa poesia della solitudine di un America disperata nella noia, senza veri valori.

Nelle giurie dei grandi Festival, cui ha preso parte nella sua lunga carriera, ha incontrato e lavorato accanto a grandi nomi del cinema. Chi ricorda con piacere?

David Lynch. Genio assoluto. Un artista che ha toccato tutte le arti, non solo il cinema. La sua potenza nell’immagine è assolutamente unica e originalissima. In più è molto simpatico.

Quali sono le gioie che le hanno dato i suoi figli, Paolo e Giulia?

Hanno grande etica, gran senso del dovere e gran rispetto per il prossimo.

So che lei è un credente. Ci spieghi qual è, se non sono indiscreto, il posto di Dio nella sua vita quotidiana.

Dio si avvicina e si allontana continuamente dalla mia vita. A volte lo sento forte. Altre volte mi sembra scomparso. Ma nella realtà sono io che appaio e scompaio da lui. C’è un unico modo per sentirlo ed è nella preghiera. Non ci sono altre strade.

Più volte ha pubblicamente suggerito che vorrebbe una Roma, e una Italia, più salvaguardata nei propri beni artistici dalla classe politica e dalle norme. Ma anche dei cittadini meno aggressivi verso la città e l’ambiente in generale…

Abbiamo bisogno di buoni esempi. Se i buoni esempi scompaiono i cittadini sbanderanno sempre nel caos. I politici dovrebbero andare a scuola di filosofia e i filosofi dovrebbero governare. Ma attenzione, anche tra i filosofi ci sono tanti cialtroni pericolosi.

A settanta anni si possono offrire consigli a dei giovani. Immagini di passare un giorno in una classe di ragazzi delle superiori. E poi un altro giorno con ragazzi d’università. Cosa direbbe loro?

Di unirsi a persone oneste che hanno voglia di fare, di rischiare. Di crederci. L’unione fa la forza.

Supponiamo che lei, tra qualche tempo, si stanchi di recitare e dirigere per il cinema. Deve intraprendere un altro mestiere per non annoiarsi. Cosa le piacerebbe fare? [scrittore, docente universitario, regista di opere liriche, poeta, fotografo]

Senza dubbio lo scrittore.

So che lei era amico di Manoel de Oliveira, presentatole da suo padre Mario. Le chiedo un piccolo ricordo del grande maestro portoghese.

Un uomo grande anche se piccolo di statura. Intelligentissimo, più giovane di tanti giovani, rivoluzionario per tanti aspetti, coraggioso nell’imporre le sue idee per il cinema. Umile, generoso. Resterà sempre nella storia come una persona da ammirare.

La ringrazio e mi auguro di poterla intervistare quando lei avrà 100 anni e, come De Oliveira, sarà sicuramente sul set.

Sarà molto difficile. Ma non si sa mai…

(Foto copertina Umberto Pizzi)

* Presentiamo un inedito di Mario Verdone, del 1956, testimone discreto di un incontro tra il bambino Carlo, a quel tempo cinque anni e mezzo, e Alberto Sordi, in Valle d’Aosta. Carlo Verdone ha sempre raccontato che chiamava, da piccolo, Alberto Sordi da casa sua. Qui ne abbiamo una conferma “filologica”. Il breve racconto è un appunto di viaggio dello studioso Mario Verdone che con due pennellate ci dà la scena come se la vedessimo sullo schermo. Siamo stati sempre convinti che la capacità di osservazione e il saper raccontare con sottile umorismo di Carlo Verdone siano, in gran parte, ereditati dal padre Mario, drammaturgo, poeta e scrittore, non ancora rivalutato appieno. (E.C.)

LA PICCOZZA (inedito)

di Mario Verdone

Mio figlio Carlo esce guardingo sul piazzale dell’Hotel Billia, brandendo il suo bastoncino ferrato, quasi considerandolo un Alpenstock. “Ma do’ vai co’ la piccozza?”, gli fa Alberto Sordi, intimidendolo.
È suo ammiratore, ma teme di essere stato riconosciuto. Lo chiama spesso, in Via delle Zoccolette, dalla nostra terrazza dirimpettaia, perché si affacci alla finestra: “Alberto Sordi!”. Saint-Vincent – luglio 1956

 



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