La Cina perde appeal in Africa. Nonostante i pesanti investimenti degli ultimi anni, Pechino soffre ancora il confronto con gli Usa e ora si trova davanti il test della crisi etiope. La Cina vede Addis Abeba come “fedele alleato”, anche se è tra i Paesi africani che iniziano a preoccuparsi dell’approccio di Pechino, spiega Ramani, dell’Università di Oxford
Il network di ricerca panafricano Afrobarometer ha pubblicato recentemente i risultati dello studio sull’influenza cinese in Africa nel biennio 2019-2020 e il risultato è che Pechino ha perso parte del suo appeal rispetto ai dati di cinque anni fa. In 15 dei diciotto Paesi in cui sono state condotte le interviste il modello di sviluppo offerto dagli Stati Uniti viene ritenuto migliore rispetto a quello diffuso dal Partito/Stato. L’influenza cinese viene comunque vista come positiva dal 60 per cento della popolazione, però perde cinque punti. La trappola del debito cinese è ritenuta come una possibilità certa da tutti i Paesi contattati (escluso il Lesotho) e solo il 2 per cento degli africani ritiene utile imparare il mandarino come lingua del futuro (l’inglese è al 71 per cento).
Il dato è ancora più interessante se si considera che arriva a valle di una serie di anni in cui l’investimento cinese in Africa è cresciuto sensibilmente. Ancora di più se si pensa che in alcuni Stati dove questi investimenti sono stati profondi il gap tra chi preferisce il modello statunitense a quello offerto dal Partito comunista cinese è cresciuto. Impossibile tra questi – dominati dalla Sierra Leone, dove gli Usa sono avanti di 42 punti percentuali – non tener conto dell’Etiopia. Gli Usa sono visti come modello ideale con un vantaggio del 16 per cento. Il contesto etiope è importante sia perché è il partner privilegiato della Cina in Africa, sia per il contesto complesso che sta vivendo il Paese, che potenzialità di espansione della crisi al quadro regionale.
Andiamo con ordine. “Le relazioni sino-etiopiche sono eccezionali sotto molti aspetti”, scriveva lo scorso anno Aaron Tesfaye della William Paterson University in un report per l’Ispi. Rapporto dal valore politico-strategico oltre che economico-commerciale, dimensione che si concretizza in un esempio: la Cina ha promosso la nomina alla guida dell’Oms di Tedros Adhanom Ghebreyesus, ex ministro del governo illiberale etiope di Meles Zenawi, finito nei mesi scorsi nel mirino delle critiche statunitensi (e non solo) perché avrebbe coperto gli sviluppi iniziali della pandemia secondo richieste di Pechino (che inizialmente voleva provare a contenere il rischio perdite di immagine internazionale da quanto stava accadendo a Wuhan).
Ora l’Etiopia è un focolaio non epidemico ma politico. La caduta verso l’instabilità, aperta dallo scontro militare tra governo e forze del Tigray, dopo anni in cui il primo ministro Abiy Ahmed aveva cercato di rappresentare equilibrio anche grazie alla crescita economica (aiutata anche dalla spinta cinese) è un problema di dimensioni regionali che pone la Cina davanti al grande dilemma: prendere posizioni o restare impassibile? Le dimensioni della crisi etiope sono enorme, Formiche.net ha dedicato molta attenzione alla situazione, anche spiegando i risvolti per l’Italia attraverso interviste alle viceministre degli Esteri, Emanuela Del Re e Marina Sereni. Il rischio di caduta in una crisi regionale è evidente.
I missili piovuti dal Tigray conto Asmara raccontano come Abiy Ahmed, premiato con il Nobel per la pace per la pace con l’Eritrea ma finito sotto accusa all’interno, si trovi su un delicato bilico che coinvolge inevitabilmente la Cina in un contesto che anche per il Dragone è altamente strategico: il Corno d’Africa, snodo talassocratico di passaggio della Nuova Via della Seta. E Pechino ha provato a muoversi, cercando di spostare il peso politico su un dossier in potenziale sovrapposizione: il rischio di espansione della crisi etiope all’annosa questione della diga Gerd. L’Egitto considera l’infrastruttura che l’Etiopia sta ultimando una minaccia che potrebbe portare allo scontro militare (con i negoziati in corso che sono infruttuosi).
Per il Cairo l’invaso prodotto – che servirà a fornire energia idroelettrica ad Addis Abeba – sottrae l’acqua al territorio del Cairo. È un esempio di crisi dell’acqua, dimensione futura che coinvolgerà scenari di crisi laddove i cambiamenti climatici si faranno più sentire. Il Corno d’Africa è uno di questi ambiti, tant’è che nella crisi-Gerd è coinvolto anche il Sudan (su posizioni simili a quelle egiziane). È altrettanto un esempio in cui la Cina ha forse provato a recuperare terreno su quell’influenza perduta tracciata da Afrobarometer. Infatti, mentre l’amministrazione Trump aveva avallato la posizione egiziana arrivando a giustificare come legittimo un eventuale attacco militare contro l’Etiopia, Pechino (con Mosca) ha preso posizioni opposta, chiedendo a egiziani ed etiopi massimo controllo per evitare escalation.
“Penso che la Russia e la Cina non vogliano davvero che l’Egitto consideri i commenti anti-Etiopia del presidente Trump come un casus belli per intensificare le tensioni sulla Gerd – spiega a Formiche.net Samuel Ramani dell’Università di Oxford – perché sono consapevoli che l’Egitto potrebbe sentirsi più insicuro riguardo al suo posto all’interno della politica estera statunitense a causa della vittoria di Biden e questo potrebbe ispirare il Cairo a intraprendere azioni più imprevedibili che altrimenti”.
La saldatura delle crisi potrebbe essere devastante, e la Cina ha cercato di usare questo lato della situazione per iniziare a giocare il proprio peso diplomatico nel Corno d’Africa? Possibili, di certo non senza interessi diretti: “La Cina, come la Russia, vede l’Egitto e l’Etiopia come partner vitali e non vuole scegliere tra loro”, aggiunge Ramani: “La Russia vende armi sia all’Egitto che all’Etiopia e sta addestrando attivamente la marina etiope. Allo stesso modo, la Cina ha visto l’Etiopia come un fedele alleato anche se i paesi africani hanno espresso preoccupazione per l’approccio di Pechino alla riduzione del debito e le accuse di razzismo a Guangzhou”.