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Cina, uiguri e diritti umani. Cosa (non) ha detto papa Francesco

Ancora una volta una frase di papa Francesco suscita dibattito e polemiche. In un libro di prossima uscita il pontefice ha definito “perseguitati” gli uiguri nello Xinjiang, attirando l’irritazione di Pechino. Cosa si cela dietro questa presa di posizione? L’analisi di Riccardo Cristiano

La prestigiosa rivista statunitense dei gesuiti, America, pubblica un articolo con anticipazioni rilevanti sul contenuto del libro intervista di papa Francesco di prossima pubblicazione  simultanea, il primo dicembre, in Gran Bretagna, Brasile, Francia, Spagna e America Latina, Germania e in Italia con il titolo “Ritorniamo a sognare”.

L’intervista è stata rilasciata al noto vaticanista Austen Ivereigh. È tra le tante anticipazioni di queste ore una delle più significative perché ci informa di alcuni dichiarazioni e prese di posizione molto significative. Tra le dichiarazioni spicca questa: “penso spesso ai popoli perseguitati: i rohingya, i poveri uiguri, gli yazidi”. È la fine di uno stillicidio?

Da tempo, in modo coerente e conforme alle loro finalità, molte organizzazioni umanitarie chiedevano al papa di pronunciarsi sulla persecuzione degli uiguri in Cina. Lo stesso facevano con malcelata incoerenza gruppi di bel altro orientamento, magari islamofobi in qualche caso o contesto, e improvvisamente dimentichi del fatto che anche gli uiguri sono musulmani. Forse si poteva scorgere in questa insistenza una solidarietà strumentale. Ora, e secondo questa autorevole anticipazione, il pontefice ha ritenuto maturi i tempi per esprimere una vicinanza che è certamente coerente con quella già espressa nei confronti degli yazidi e del rohingya, e che rende tutto più chiaro. Anche a Pechino, che si è affrettata a definire infondate le affermazioni di Francesco.

Nello stesso paragrafo viene poi riferita la posizione che il papa esprime in favore delle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd, che contrappone a quelle contro il lockdown, dove si protesta per l’imposizione da parte dello Stato dell’uso delle mascherine ma dimenticano quelli che non hanno sicurezza sociale o hanno perso il lavoro: “ Non si troveranno mai queste persone nelle proteste per la morte di Floyd, o perché  ci sono baraccopoli dove i bambini non hanno acqua o educazione, o perché intere famiglie hanno perso il loro reddito. Non si troveranno mai queste persone che protestano perché la sbalorditiva cifra spesa in commerci di armi potrebbe essere usata per nutrire l’intera razza umana e dare istruzione a tutti i bambini del mondo”.

Altro elemento di estremo rilievo nell’articolo di America è l’affermazione che il papa nel libro si direbbe a favore del reddito universale di base, UBI o “universal basic income”, citando gli studi di Mariana Mazzucato e Kate Raworth come fonti che stimolano. La rivista Forbes a maggio ha scritto che cinque economiste meritano la nostra attenzione per la loro capacità innovativa: sono Esther Duflo, Stephanie Kelton, Mariana Mazzucato, Carlota Perez e Kate Raworth.

Ora sarà importante leggere bene perché proprio di recente c’è stata una discussione su quale sia l’idea esatta del papa tra le diverse che esistono al riguardo (reddito o salario?). Al riguardo si è espresso tempo fa uno dei più brillanti, e innovativi, economisti cattolici, il gesuita Gael Giraud, che in un lungo e acutissimo studio pubblicato da La Civiltà Cattolica ha osservato: “Nella sua Lettera ai movimenti popolari, pubblicata nel giorno di Pasqua, il 12 aprile 2020, papa Francesco ha chiesto l’istituzione di una «retribuzione universale» di base: «Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti». La proposta non ha mancato di suscitare reazioni, sia entusiaste sia critiche.

Queste sue affermazioni significano forse che il Santo Padre abbraccia la causa di un reddito universale, versato a tutti, senza condizioni? O egli intende difendere il principio del giusto salario per tutti i lavoratori? E poi, se davvero si sta parlando di un reddito universale senza condizioni, in che modo un’attenzione autenticamente evangelica ci può orientare per valutare bene le condizioni pratiche di una sua attuazione? Oppure si tratta semplicemente di un’utopia irrealizzabile? Sono domande che vanno poste, tanto più oggi, dal momento che la gestione «medievale» della pandemia di coronavirus praticata da molti Paesi minaccia di far sprofondare gran parte del nostro Pianeta in una depressione economica grave almeno quanto quella vissuta in Occidente negli anni Trenta del secolo scorso.

Di fronte all’esplosione di disoccupazione e povertà, che d’ora in poi probabilmente ci accompagnerà per tutto il decennio 2020, anche in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, questa «retribuzione universale» può essere considerata una delle soluzioni per aiutarci a uscire dalla trappola deflazionistica? Essa può contribuire a risolvere anche l’enorme sfida della povertà globale?”

L’articolo prosegue con un’altra citazione testuale molto importante: “potrebbe essere che in questa crisi la prospettiva portata dalle donne sia quella che ci serve per fronteggiare le sfide che arrivano?” Il contributo offre poi un evidente collegamento tra queste parole e una riferita sottolineatura da parte di Francesco del successo avuto da nazioni guidate da donne nel controllare la pandemia e quindi alla descrizione e dei  suoi sforzi di collocare più donne in posizioni apicali in Vaticano.

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