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Una strategia oltre il virus. Le sfide per la Difesa secondo il gen. Tricarico

“Virus o non virus, lo strumento militare sta subendo una profonda mutazione sulla quale è indilazionabile una riflessione profonda che trascenda lo scenario drammatico di oggi”. Verso il 4 novembre, giornata delle Forze armate, l’opinione sulle sfide della Difesa del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica

Limitarsi a riflettere sulle Forze armate e sulla loro identità in relazione al contesto emergenziale che ci angoscia da quasi un anno sarebbe come guardare il dito e non la Luna. Virus o non virus, lo strumento militare sta subendo una profonda mutazione sulla quale è indilazionabile una riflessione profonda che trascenda lo scenario drammatico di oggi e ci faccia valutare a mente fredda se e quanto siamo sulla strada giusta nelle attività di pianificazione e preparazione delle nostre forze armate.

La prima riflessione non può che riguardare il venir meno del ruolo statunitense e, in minor misura, di altre potenze regionali, di regolatore dei conflitti che ha agevolato la deriva verso un uso generale e indiscriminato della forza, ormai sottratta platealmente al rispetto delle regole che finora, bene o male, tutti avevano tenuto in debito conto. Per lo stesso motivo la Nato, sotto l’incessante “commissariamento” statunitense, oltre a sottrarsi al dovere di volgere lo sguardo dove la sicurezza collettiva era in serio pericolo, ha continuato a fossilizzarsi sul fronte est, leggasi Russia di Putin, in ciò sostenuta dai nuovi Paesi membri già appartenuti al blocco sovietico.

Di conseguenza, nel suo permanere ingessata nei vecchi schemi, l’Alleanza sembra non accorgersi del fatto che le regole per un uso corretto dei sistemi d’arma che lei si era data e di cui aveva preteso il rispetto da parte di tutti, venivano sistematicamente disattese. Un esempio su tutti, le operazioni condotte dalle forze armate di Erdogan contro i curdi siriani o, è storia di oggi, in Nagorno Karabakh.

Allora a cosa serve inseguire con caparbia la tecnologia e dotarsi di sistemi di quinta o sesta generazione se poi le bombe vengono sganciate balisticamente, come dei semplici pezzi di ferro? Questo hanno fatto ad esempio i russi quando hanno dato il via ai bombardamenti in Siria e, cosa ancora più bieca, sembra che i kit di guida sull’ogiva delle bombe non siano stati montati per contenere i costi del conflitto. La vita dei non combattenti insomma non ha più alcun ruolo nella pianificazione delle missioni, anziché ricoprire importanza prioritaria come era nostra abitudine mentale nella gestione dei conflitti.

Un Paese civile pertanto oggi non può far altro che denunciare questo imbarbarimento delle confrontazioni e pretendere un rientro nei ranghi da parte di tutti a cominciare da amici ed alleati, ad iniziare dalla Nato. La sveglia andrebbe anche suonata per l’Europa, l’eterna latitante anche nel settore Sicurezza e Difesa, perché si adoperi almeno per assumere un ruolo di qualunque tipo nella risoluzione o composizione delle controversie emergenti o dei conflitti in atto. La concretezza di questo assunto è sotto gli occhi di tutti: una missione navale europea, Irini, che solca il mare, prima con il nome di Sofia, da ormai cinque anni e che non riesce neppure a individuare e bloccare le navi madri che a poche miglia dalla nostra terra ferma partoriscono i barchini di immigrati diretti sulle nostre coste. Altro che far rispettare l’embargo delle armi alla Libia.

Ecco quindi un’altra azione di stimolo che il nostro Paese dovrebbe continuare ad esercitare: pressare in tutte le sedi gli organismi comunitari, segnatamente quelli militari, affinché venga intrapreso un percorso di edificazione di uno strumento militare europeo; intanto progettiamolo, scriviamo una nuova dottrina di impiego della forza commisurata ai moderni scenari e organizziamo insieme le Forze armate di ciascuno; in modo da non trovarsi impreparati quando, prima o poi verrà messa a punto una politica estera comune o verrà individuata una visione condivisa sui singoli dossier, come ad esempio in Libia.

E su tutto, prende ogni giorno di più forma e piglio aggressivo l’ombra del quinto dominio, quello cibernetico, che tenderà a sconvolgere gli equilibri della capacità tradizionale ma che non dovrà indurre a disimpegni capacitivi, ossia al falso assunto che l’uno (il cibernetico) sostituisca l’altro (l’ortodosso). Semmai verrebbe da pensare che in futuro l’uno possa rappresentare deterrenza per l’altro e che quindi le due capacità vadano mantenute intatte o forse rafforzate.

Sul fronte domestico molti sono gli auspici che la ricorrenza del 4 novembre sollecita, dalla necessità che la componente di impiego nelle missioni internazionali si riappropri delle sue dimensioni rispetto a quelle, ormai eccessive, raggiunte dalle forze utilizzate nelle cosiddette emergenze (che poi emergenze non sono) entro i confini nazionali. Che poi venga data compiutezza al quadro giuridico che regola l’impiego e la ordinaria quotidianità dei militari. Il “caso Stano” tanto per intenderci, quello (lo ricordo) di un ufficiale condannato a pagare di tasca propria le conseguenze fatali subite dai suoi dipendenti in un episodio di guerra.  O il quadro giuridico che regolerà l’esercizio delle attività di tipo sindacale, per far sì che le fughe in avanti fatte intravedere quando lo starter era Elisabetta Trenta, riconfluiscano nello spirito autentico della sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto quelle attività legittime.

Da ultimo lo “I have a dream” di tutti gli esponenti di vertice delle Forze armate da troppi anni a questa parte: che si proceda verso un più compiuto spirito interforze, che ci si metta finalmente a lavorare insieme. L’entrata in servizio dell’F-35 a decollo corto e atterraggio verticale è solo l’ultimo esempio di come siamo lontani da questo obiettivo, doveroso verso un Paese in sofferenza (anche finanziaria) prima che verso noi stessi e il nostro dovere di mettere a punto uno strumento militare aggiornato ed efficace. Invece le cose stanno andando un po’ per conto loro, verso soluzioni poco responsabili, perché oltre che contemplare una rigida compartimentazione delle forze anziché la loro jointness, comportano insieme a una ridotta (e per la Marina nulla) capacità operativa del sistema nei prossimi cinque/dieci anni, anche uno spreco di risorse inaccettabile.

Si badi bene, stiamo parlando di un velivolo, lo F-35 che ha oltre il 60% di comunalità nelle due versioni A e B, comunalità che mettono in condizione i tecnici dell’Aeronautica di gestire già da ora ambedue le versioni ma che la Marina insiste per gestire in proprio con un evidente dispendio di risorse. Atteggiamento questo difficilmente giustificabile laddove qualcuno un giorno volesse verificare, nei fatti oltre che negli aspetti formali, la correttezza di gestione del denaro pubblico.

E purtroppo l’elenco delle separazioni in casa è ancora molto lungo, ma un giorno o l’altro qualcuno dovrà metterci mano. Celebrare la festa delle Forze armate dunque ha un senso solo se si prende consapevolezza delle sfide che attendono il mondo della Difesa (ad alcune delle quali si è fatto cenno) e se chi detiene la responsabilità tecnica o politica del comparto ne tragga le dovute responsabili conseguenze.

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