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Libia, Nagorno-Karabakh e Cipro. Erdogan passeggia tra le sue crisi

Cipro, Nagorno-Karabakh e Libia: tre dossier di crisi dove Ankara non vuole retrocedere di un centimetro. La competizione con Putin e la strada in salita in Libia. Ecco la corsa a ostacoli del sultano Erdogan

Tour de force per il presidente Recep Tayyp Erdogan, che cerca di tenere in piedi la presenza turca su alcuni dossier in cui ha investito in termini economico-politici e narrativi (dimensioni la cui importanza all’interno di autocrazie come quella di Ankara è simmetrica).

Domenica 15 novembre il capo di Stato turco è andato a Cipro, chiaramente nella parte settentrionale che la Turchia ha invaso nel 1974 piantando le basi per la Repubblica Turca di Cipro. Frutto di un’entità statuale riconosciuta soltanto da Ankara, quello nella parte nord cipriota è uno dei grandi dossier critici aperti nel Mediterraneo, recentemente riattivato dal mix di avventurismo e attivismo di Erdogan. Questioni legate al controllo di giacimenti di idrocarburi di cui quelle acque sarebbero ricche, ma anche a una dimensione narrativa in cui spingere il nazionalismo. Erdogan è andato a Varosha, spiaggia della Famagosta simbolo della divisione di Cipro.

La riapertura del litorale (la “Saint Tropez cipriota” era un simbolo glamour dell’isola prima di essere sfigurato dalla violenza del conflitto turco-greco) era stata annunciata dalla capitale turca mentre era in visita Ersin Tatar, anti-federalista fedelissimo del Sultano che ha ottenuto la vittoria elettorale di Cipro Nord il mese scorso. Varosha è un simbolo si è detto: la sua apertura sarebbe proibita da una risoluzione Onu, ma Erdogan sta cercando di dimostrare che niente in questo momento seguirà lo status quo. Il suo ministro degli Esteri, un vettore  della narrativa erdoganiana, sostiene che è arrivata l’ora che il Sud e il Nord di Cipro abbiano “uguaglianza nella sovranità”. Domenica dei caccia turchi hanno disegnato, con le scie dei jet, la Mezzaluna turca nei cieli di Cipro: messaggio provocatorio a Nicosia, dichiarazione pubblica sulle intenzioni di Ankara.

Lunedì 16 novembre, Erdogan ha inoltrato al Parlamento una risoluzione per chiedere l’invio di forze di peacekeeping in Nagorno-Karabakh. La partita tra Armenia e Azerbaigian s’è chiusa, soprattutto per volontà russa, a favore dei secondi, che per Ankara sono considerati protetti da una continuità culturale che porta gli uni e gli altri a definirsi un unico Stato. La Turchia ha sostenuto militarmente le ambizioni militari azere nel Karabakh, e ha ottenuto un risultato positivo nel Caucaso. La Russia per non perdere terreno – nella propria sfera d’influenza, e nei rapporti con Ankara e Baku – è stata costretta a mollare l’alleato armeno.

Con il dispiegamento (che il Parlamento approverà quasi certamente, forse già oggi 17 novembre) Erdogan darà seguito alla costituzione del Centro per il monitoraggio del cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh di cui aveva parlato l’11 novembre – a due giorni dall’accordo di cessate il fuoco raggiunto da Vladimir Putin. I turchi saranno gestiti dall’Azerbaigian e non ci saranno presenze congiunte lungo la linea di contatto nei territori contesi. È una necessità per non creare eccessivi sbilanciamenti con l’Armenia (il genocidio turco-armeno è il tema di fondo in questo caso) ed è anche un aspetto tecnicamente rilevante: quanto succederà nell’enclave caucasica sarà diverso da quello che si vede al nord della Siria, dove unità turco-russe pattugliano l’area nonostante i primi stiano dalla parte dei ribelli e i secondi siano il puntello che ha tenuto in vita il regime.

Questo sistema che l’analisi anglosassone definisce con il neologismo “coopetition” – cooperazione-competitiva in cui si rispettano gli interessi reciproci perseguendo obiettivi comuni – serve a uno scopo centrale: escludere i sistemi occidentali (Ue, Usa, ma anche Osce, Onu) dalla gestione di certe crisi. Erdogan e Putin sfruttano una base valoriale comune per portare avanti i propri interessi. Un altro dossier in cui si snoda la coopetition è la Libia, ultima tappa di quel tour de force di questi giorni. Oggi 17 novembre Erdogan è atteso a Tripoli e Misurata. Una visita di qualche ora – anticipata domenica su queste colonne in un’analisi di Daniele Ruvinetti – che avrà lo scopo di fornire “supporto morale” al Governo di accordo nazionale libico (Gna), l’organo esecutivo riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto militarmente da Ankara. L’arrivo in Libia di Erdogan coincide con una crisi del processo negoziale intavolato dall’Onu.

Il Forum del dialogo politico libico che si è tenuto a Tunisi – appuntamento che avrebbe dovuto segnare il futuro della stabilizzazione del Paese nordafricano – si è concluso due giorni fa senza alcun accordo sul meccanismo per l’elezione del nuovo governo. Un insuccesso dovuto a divisioni interne collegate al ruolo degli attori che si muovono dall’esterno attorno al dossier. Tra questi, sul lato della Cirenaica troviamo la Russia con il classico meccanismo di contraltare turco. La presenza di Erdogan in Libia andrà a confermare un’impressione che chi segue il dossier ha ben chiara: né Mosca né Ankara hanno minimamente intenzione di abbandonare le postazioni guadagnate sul territorio libico, quando invece il presupposto dei colloqui onusiani è l’uscita delle forze straniere dalla Libia. Il duo Erdogan-Putin ha intenzione piuttosto di influenzare il procedere dei negoziati sulla base delle loro rispettive-e-congiunte volontà.

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