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Così l’emergenza sanitaria sta cambiando le lobby. Parla Fabio Bistoncini

Bistoncini

Dal disegno di legge in discussione alla Camera sulla regolamentazione dell’attività lobbistica all’impatto della pandemia, fino alla programmazione economica che l’Italia sta svolgendo, per la verità abbastanza lentamente, in vista del Recovery Fund europeo. Conversazione con il lobbista Fabio Bistoncini, fondatore di Fb & Associati

“Non so se questa sia davvero la volta buona per una legge sulle lobby. Ho notato che c’è una grande spinta parlamentare ad andare avanti, ma i tempi sono stretti”. E ancora sulla partita del Recovery Fund, su cui inevitabilmente si sta concentrando l’attenzione dei rappresentanti d’interessi, oltreché della politica: “Dall’andamento del dialogo su questo tema fondamentale potremo capire come si svilupperà nei prossimi anni in Italia il rapporto tra decisori pubblici e gruppi di interessi: il Next Generation Eu non significa solo risorse ma anche diverse visioni della società”.

Parola di Fabio Bistoncini che in questa conversazione con Formiche.net ha fatto il punto della situazione sulle novità che stanno interessando il settore in questa fase di emergenza, dal disegno di legge in discussione alla Camera all’impatto della pandemia fino all’attività di programmazione che l’Italia sta svolgendo, per la verità abbastanza lentamente, in vista del Recovery Fund europeo. “Ma non sono d’accordo a definirlo assalto alla diligenza, la redistribuzione delle risorse è uno dei compiti dello Stato”, ha affermato Bistoncini, che ha appena varato una riorganizzazione all’interno della sua società, la Fb & Associati, con la nomina di Paola Perrotti ad amministratore delegato e la promozione a partner di Annalisa Ferretti e Agnese Chiscuzzu.

Bistoncini, cominciamo dal tema della regolamentazione. Lei è favorevole?

Sì, sono favorevole a una normativa fortemente semplificata di regolamentazione delle lobby che permetta di raggiugere l’obiettivo, da tutti dichiarato, della trasparenza. Perché ciò accada però, è necessario prevedere regole chiare e semplificate. Altrimenti, non funzionerebbe.

In che modo?

Penso a un unico registro nazionale, senza l’attuale frazionamento, alla cui iscrizione dovrebbero essere obbligati tutti i portatori d’interessi. In caso contrario, si iscriverebbero in pochi.

E poi?

Ogni gruppo di interesse dovrebbe indicare chi sono i loro lobbisti e quali sono gli interessi che si intendono tutelare. E ancora, aggiornamento due volte l’anno con un’apposita relazione e adozione obbligatoria di un codice di condotta che accompagni il registro ,con sanzioni e incentivi.

In commissione Affari costituzionali della Camera si discute un disegno di legge sulla regolamentazione delle lobby che riunisce i testi presentati da Silvia Fregolent (Italia Viva), Marianna Madia (Partito democratico) e Francesco Silvestri (Movimento 5 Stelle). Pensa che questa possa essere la volta buona?

Non lo so, ho parecchi dubbi. Ho notato che c’è una grande spinta ad andare avanti anche, ovviamente, la pandemia ha rallentato il processo, com’era inevitabile. Il provvedimento era stato anche calendarizzato per l’aula ma ora è iniziata la sessione di bilancio: se ne riparlerà l’anno prossimo. È difficile che possa essere approvato da entrambi i rami del Parlamento entro due anni.

Senta, ma perché l’Italia non riesce a legiferare su questa materia? Si contano nella storia repubblicana ben 65 proposte di legge ma ancora non abbiamo una disciplina organica sulle lobby. 

Il tema innanzitutto è culturale. C’è un’incapacità del nostro sistema politico che affonda le sue origini nella cosiddetta Prima Repubblica: i partiti erano considerati al di sopra delle altre parti sociali, unici titolari della missione di perseguire l’interesse generale. Per questo non prendevano neppure in considerazione l’idea di interfacciarsi con i gruppi di interesse. I partiti incanalavano gli interessi al loro interno e così ci dialogavano.

Dopo cos’è successo?

Quando quel sistema è crollato c’è stata una naturale ritrosia da parte dei partiti e dei vecchi e nuovi movimenti, ancora con la pretesa di fare da soli, ad ascoltare i singoli gruppi di interesse. Anche se bisogna riconoscere che gli stessi lobbisti sono divisi sull’eventualità di una normativa che disciplini questa materia.

Però poi nella pratica c’è una forte attività di lobbying che non viene sempre riconosciuta come tale. Non è così?

Siamo sempre più una società complessa e in conflitto, non solo l’Italia ma tutti i Paesi a capitalismo avanzato. Significa che gli interessi chiedono sempre di più accesso al processo decisionale. Basta guardare cosa sta accadendo in virtù della pandemia. L’attività di erogazione di risorse da parte dello Stato porta con sé inevitabilmente la competizione feroce tra gruppi di interesse, perché le risorse per definizione sono finite.

Un po’ quello che si teme accada, e anzi che sta già accadendo, sulle risorse del Recovery Fund. Come valuta questo mega assalto alla diligenza paventato anche dai media?

Non credo vada visto negativamente, non sono d’accordo a definirlo così. La redistribuzione delle risorse è uno dei compiti dello Stato. È nel naturale dialogo con i gruppi di interesse che i decisori devono affidare più fondi ad alcuni e meno ad altri. Capisco che i media lo interpretino in questo modo, a me però sembra una classica dialettica tra rappresentanti di interesse e decisori pubblici.

Ma non c’è il rischio che questa pressione porti a parcellizzare le misure e le risorse da investire con la conseguenza di rendere meno efficace questo strumento così rilevante?

È vero, ma la grande opzione della politica è proprio la scelta. I gruppi di interesse non chiedono alla politica di non scegliere, ma di decidere. Spetta ai decisori stabilire se accontentare l’uno o l’altro. Oppure se accontentare tutti e dare poco a ciascuno. Il che vuol dire, di fatto, anche scontentare tutti. Questo tentativo della politica di tenere tutti buoni nel medio-lungo periodo, a mio avviso, non condurrà da nessuna parte: le istituzioni devono assumersi la responsabilità di scontentare qualcuno.

E pensa che ne saranno capaci in Italia?

Questo è da sempre il compito della politica: dare priorità di sviluppo. Laddove ci sono più lobby e gruppi di interesse attivi, il decisore dispone di maggiori informazioni e si trova quindi nella condizione di scegliere con più cognizione di causa. L’assunzione di responsabilità è una prerogativa del decisore a prescindere.

Da marzo in poi, con la pandemia, com’è cambiato il vostro lavoro?

È cambiato moltissimo, soprattutto per via di quattro variabili. La prima è rappresentata dall’accentramento a Palazzo Chigi del processo decisionale. Per la prima volta si è avuto questo utilizzo massiccio dei Dpcm. Non voglio entrare nel merito della questione giuridica, personalmente lo giustifico vista l’emergenza che stiamo vivendo. Però, a differenza del decreto legge che viene emanato dal Presidente della Repubblica e che poi deve essere convertito dal Parlamento, nel caso dei Dpcm siamo di fronte a un’assunzione di responsabilità del presidente del Consiglio che esclude anche i ministri. Questo è stato il primo aspetto che ha impattato il nostro lavoro.

E le regioni?

Infatti, accanto alla concentrazione del potere in capo a pochi sono notevolmente aumentate le misure demandate alle regioni, che poi costituiscono  il vero elemento di confusione di questa seconda fase dell’emergenza: significa che come gruppo di interessi ti devi interfacciare non solo con il governo ma anche con i decisori regionali. Da questo punto di vista c’è una complessità in più, tipica del nostro sistema, che ancora non ha deciso se virare decisamente verso il regionalismo oppure se riassorbire al centro alcune competenze.

Cos’altro?

L’impossibilità di incontrarsi ha inciso fortemente sull’attività lobbistica: trasferire le istanze dei gruppi di interesse ai decisori, al di là dell’incontro, ha imposto la trasformazione digitale di tutte le organizzazioni. Anche la politica non sempre era preparata, ma mi pare che le cose, dopo un’inevitabile assestamento, abbiano funzionato.

L’ultima variabile?

Il fatto che soprattutto all’inizio il decisore si sia affidato ai classici corpi intermedi – le associazioni datoriali e quelle sindacali  in particolare – fino ad arrivare all’apoteosi degli Stati generali dello scorso giugno. Ma è chiaro che quello rappresenta un modo di fare che non regge più: la società è troppo complessa e tutti gli interessi non possono essere riassunti in un numero più o meno ristretto di soggetti intermedi. Gli interessi della società sono molti di più.

Bistoncini, in conclusione pensa ci sia il margine per formulare, dal punto di vista dei lobbisti, qualche tipo di auspicio?

Guardo con grande attenzione al 2021: dall’andamento del dialogo sul Recovery Fund – che non significa solo risorse ma anche diverse visioni della società – potremo capire come si svilupperà nei prossimi anni in Italia il rapporto tra decisori pubblici e gruppi di interessi. Spero che l’Italia possa vincere questa grande sfida attraverso una dialettica sana con i portatori di interesse. Non possiamo permetterci di sprecare quelle risorse e sono convinto che questo dialogo possa contribuire a centrare l’obiettivo.

Anche se poi la responsabilità finale spetterà, inevitabilmente e giustamente, alla politica.

Certo, le scelte competono ai decisori pubblici.

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