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Don Milani o Trump? Educazione vs populismo secondo D’Ambrosio

Come abbiamo perso l’I care di cui era testimone don Milani? Quali sono le cause del fenomeno del populismo? Molte, ma cominciamo con il parlare del disimpegno degli intellettuali nel formare ed educare i giovani. La riflessione di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma

Mentre scorrono le immagini della Cnn e l’analista spiega come il voto delle città è determinante per la vittoria di Biden, ripenso alla frase di don Milani, nella Lettera ai Giudici (1965): “Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista Me ne frego”. E penso ai giovani e adulti statunitensi che hanno votato Trump, con convinzione ed entusiasmo. Che fine ha fatto l’I care? Dove sono gli Stati Uniti d’America propulsore di democrazia, nonostante i loro ovvi limiti?

Ad essere onesti il problema non sono gli Stati Uniti ma il problema è il populismo che imperversa; una malattia democratica che ha due poli importanti: il popolo e il leader. Riguardo al popolo va detto che, in genere, si tratta di un popolo non ben definito, accomunato da bisogni o stato di crisi, in disagio economico e culturale, che si sente orfano di reali rappresentanti dei suoi interessi, quasi in perenne stato di resistenza e assediato da alcuni nemici sociali storici (ebrei, immigrati, stranieri, neri e così via). A questo tipo di popolo si presenta e chiede consenso un leader che ha la pretesa di essere l’unico idoneo a rappresentare questo popolo. Il populista è poco rispettoso di regole e procedure democratiche, in contatto costante (specie sui social) con il suo popolo, qualche volta rasentando anche volgarità e stupidità di ogni genere. Una malattia che è ormai globale. Sono populisti, con diversi atteggiamenti, strategie e finalità, leader quali Trump, Bolsonaro, Erdogan, Salvini, Meloni, Le Pen, Casaleggio, Grillo, Renzi, Di Maio, Chavez, Maduro, Morales, Orban, Berlusconi, Lukasenka. Non sono assolutamente uguali tra loro – per tratti umani, etici e politici – ma hanno diverse cose in comune (The Guardian on line, The new populism).

Ma c’è un altro elemento che li accomuna: sono leader in Paesi che hanno scarsa formazione politica e, soprattutto, hanno seri problemi di tipo culturale, scolastico e universitario. Paesi dove: è alto l’analfabetismo (primo o di ritorno); esiste una crisi di larghi settori della scuola e dell’università; ci sono saperi ridotti, monotematici e poco interdisciplinari, effimeri, estremamente dipendenti dalla superficialità di diverse fonti on line. Non manca solo la formazione civica, sociale e politica, manca la formazione tout court. Non è un caso che colto in inglese si dica educated.

Questa è, dunque, la situazione in ampi strati di popolazione. I dati statunitensi sono lampanti. Trump ha fatto incetta di voti in queste zone povere e/o con scarsa cultura; ma lo stesso succede in Francia come in Italia e altrove. E dove non c’è formazione, o ce n’è poca e scadente, è molto facile essere influenzati dalle grida del momento, senza nessuna capacità critica di discernere, anche nelle scelte elettorali. Sarebbero anche da approfondire le forme di analfabetismo emotivo che riducono la capacità e creano una dipendenza da quei leader che gridano e colpiscono di più. Un riferimento appropriato è ciò che Hannah Arendt chiamava “estraneazione”, che portava le masse ad accogliere, invaghirsi e poi subire forme di dittatura (Le origini del totalitarismo). Bonhoeffer, a proposito, avrebbe detto sinteticamente che “la potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri” (Resistenza e Resa).

Le cause del fenomeno sono tante. Ne sottolineo una. Il disimpegno di intellettuali e docenti, di sinistra come di destra nel formare non solo i propri studenti, ma anche gruppi e associazioni, specie in quartieri popolari e poveri culturalmente. È facile lamentarsi e giudicare negativamente chi segue i populisti del momento: ma, al di là delle responsabilità individuali, quante sono quelle del mondo politico, accademico, intellettuale, mediatico, ecclesiale? Un intellettuale è tale non solo se scrive testi, frutto di studio e dialogo, ma si preoccupa anche di diffondere cultura, partendo dagli ultimi, che hanno bisogno di cultura quanto di lavoro. “La povertà dei poveri – scriveva Milani – non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale” (Esperienze pastorali).

I Paesi che vivono ondate populiste sembrano interrogarsi molto poco sulla decadenza della classe intellettuale e sui motivi per cui, come scriveva Tonino Bello, oggi gli intellettuali sono “latitanti dall’agorà, e, disertando la strada, si sono staccati dal popolo”. C’è invece un’icona di intellettuale molto bella e autentica. È in una confessione di Emanuel Mounier: “Sono un intellettuale. Questa parola richiama alla mente un certo numero di atrofie e di tic. Mi guarderò dal credermene esente. Ma spesso ripenso con riconoscenza ai miei quattro nonni contadini, veri contadini tutti e quattro, con le scarpe infangate, la levata alle tre ed una fetta di salame in mano. Quando malgrado tutto mi sento intimamente così straniero alla mia gens, come gens, quando mi ribello alla ipocrisia, alle espressioni ampollose, alle piroette o, sull’altro versante (l’università), all’agghiacciante atteggiamento di sussiego, avverto uno dei miei nonni che reagisce in me, il suo sano realismo che mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi che purifica i miei polmoni, ed io ringrazio…” (Correspondance).


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