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Libia, la liberazione dei pescatori italiani e il processo di pace. Il punto

La vicenda che ha visto coinvolti il premier Conte e il ministro Di Maio, andati in Libia per sbloccare la crisi dei pescatori, è complessa e si inserisce all’interno di alcune dinamiche che riguardano le diatribe intra-libiche nel quadro del processo negoziale che l’Onu sta guidando

In onda a “Che Tempo Che Fa” su Rai Tre il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha parlato della vicenda della liberazione dei pescatori siciliani tenuti per 108 giorni in ostaggio da parte della milizia che risponde al comando del signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar. Il ministro italiano ha detto: “All’inizio Haftar chiedeva la liberazione di quattro libici in Italia, condannati in secondo grado per traffico di esseri umani”, confermando le voci circolate da tempo, poi ha aggiunto: “Non era accettabile, poi siamo giunti a più miti ragioni per cui ci si chiedeva di riprendere semplicemente le relazioni”. E “abbiamo riallacciato i rapporti”, spiega Di Maio dando conferma definitiva all’intento politico del capo miliziano libico, caduto in disgrazia dopo che la sua iniziativa militare per conquistare Tripoli era stata definitivamente respinta – a giugno – dalle forze del governo onusiano Gna aiutate dalla Turchia. Di Maio dice che l’Italia aveva interrotto i rapporti con lui a causa del rapimento, ma già nello stesso giorno in cui i pescatori sono stati rapiti, il ministro aveva programmato di non fare tappa a Bengasi in una delle sue svariate visite per curare il dossier libico.

LA LIBERAZIONE

Secondo le ricostruzioni, Haftar è stato pressato da più parti per cedere sul rilascio dei marinai, per il quale avrebbe richiesto in cambio ciò di cui parla Di Maio, la riqualificazione dei rapporti con Roma, che si è concretizzato con l’incontro col ministro e col presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e con le photo opportunity collegate. Secondo quanto noto a Formiche.net, per esempio, sia la Grecia (che parla con Haftar in chiave anti-Turchia, disposta sull’altro lato del conflitto libico) che la Russia (partner di Haftar con mire espansionistiche nel Mediterraneo) hanno avuto un loro ruolo nelle trattative; e non solo. Differentemente da quanto detto dall’ex premier Silvio Berlusconi però non è stato grazie a Vladimir Putin che Haftar ha rilasciato i pescatori. Circostanza negata anche da Di Maio. Il rilascio è avvenuto a valle di una serie di interlocuzioni, su cui l’Aise ha avuto il ruolo centrale, e che hanno avuto come contraccambio quel riconoscimento di Haftar come “interlocutore” (così lo chiama Conte), utile al signore della guerra per spingere il suo ritorno in pista. La vicenda è complessa, distante dalla polemica politica interna in cui è stata abbassata dalle forze politiche italiane. La riqualificazione di Haftar è parte di una serie di passaggi che lo hanno visto protagonista nell’accordo sulla riapertura delle produzioni petrolifere, nell’accettazione del meccanismo di contatto militare “5+5” (parte del dialogo onusiano in corso), delle evoluzioni che riguardano la Banca centrale.

IL PIANO ONU

Intese intra-libiche mediate attraverso un ruolo predominante del vicepremier libico, Ahmed Maiteeg, che ha lavorato anche nella liberazione dei pescatori. Da quest’estate Haftar era stato marginalizzato dal dialogo spinto dalle Nazioni Unite, che promuovevano un’idea di rimpasto del Consiglio presidenziale e del governo secondo l’uso di un’accoppiata Est-Ovest che avrebbe dovuto mettere d’accordo Tripolitania e Cirenaica e che invece non solo è fallita per ora, ma ha anche sottolineato ulteriori divisioni – e rischia di far naufragare i negoziati con tanto di arroccamento militare attorno a Sirte di Haftar in questi ultimi giorni o la propaganda sulla conquista del campo militare di Ubari nel Fezza. Secondo l’idea dell’ex rappresentante Onu facente funzione, il presidente del parlamento libico, Agila Saleh, sarebbe dovuto diventare presidente, mentre al ministro degli Interni Fathi Bashaga toccava il ruolo di premier. L’Italia, come altri paesi, s’è allineata e per questo ha interrotto formalmente il dialogo con Haftar. Secondo altre ricostruzioni non confermabili, ma che i fatti non fanno sembrare troppo distanti dalla realtà, Haftar avrebbe reagito di sdegno proprio davanti alla situazione che si era creata: il primo settembre, mentre Di Maio era in Libia senza incontrarlo, aveva colto l’occasione dello sconfinamento delle due imbarcazioni italiane, fermate da un motovedetta e quattro dei suoi uomini, per farla pagare a Roma.

LE DIFFICOLTÀ

Il processo Saleh-Bashaga pensato dall’Onu è andato in difficoltà. Haftar nel frattempo aveva aperto sul petrolio e sui colloqui militari e aveva fatto in modo che i delegati a lui più vicini presenti al tavolo delle trattative Onu non votassero a favore di quell’idea, bloccando i lavori in modo pro-attivo, mentre i suoi partner (Russia, Emirati Arabi ed Egitto) hanno iniziato a valutare un suo ritorno. Saleh è stato per lungo tempo l’ater ego politico di Haftar, ma con la ritirata militare i loro rapporti si sono deteriorati; il leader parlamentare ha tentato di lanciare una sua iniziativa politica (di sponda con il Cairo) dopo la sconfitta haftariana; il capo miliziano non l’ha accettato. Tuttavia l’iniziativa di Saleh era stata accolta dall’Onu e rilanciata come base per far partire il dialogo lungo quell’asse con Bashaga. Ma mentre il presidente del parlamento dimostrava di aver poca presa in Cirenaica – dove controlla Tobruk, sede in cui l’assise che guida s’è rifugiata cinque anni fa, ma non controlla Bengasi, feudo di Haftar – Bashaga anche trovava altri problemi. Il ministro viene inquadrato come troppo vicino alla Fratellanza musulmana e per questo contro di lui trova sia le componenti dell’Est (e gli sponsor: l’Onu ha avuto un aut aut dalla Russia, che minacciava di non votare qualsiasi risoluzione sui rimpasti se componenti dei Fratelli avessero avuto posizioni di eccessivo rilievo) e dalle fazioni non islamiste della Tripolitania.

IL PIANO SERRAJ…

Bashaga sta perdendo appeal: nei giorni scorsi, il premier Fayez Serraj gli ha tolto il controllo della Rada, una mossa formale con cui il capo del governo toglie al suo ministro degli Interni la milizia che fa da forza di polizia. Secondo una fonte libica della Tripolitania sentita da Formiche.net questa decisione è legata a un pressing fatto dalla Turchia, che non ha gradito il tentativo di Bashaga di guadagnare il consenso francese durante una visita a Parigi. Davanti a questa situazione generale, e vedendo che il piano Onu Saleh-Bashaga non trovava sbocchi, Serraj – che mesi fa aveva annunciato le dimissioni – ha sostanzialmente accettato, anche sotto un richiamo della Turchia, di restare al suo posto, pensando però a un rimpasto con cui includere qualcuno della Cirenaica nel governo onusiano. L’idea del presidente del Consiglio presidenziale è quella di cedere il ruolo di premier a qualcuno indicato da Haftar. Secondo Repubblica è anche portando con loro questa proposta che i due leader delle autorità italiane si sono recati a parlare con il signore della guerra libico nell’occasione della liberazione dei pescatori.

… SE HAFTAR CI STA

Un’altra fonte libica che ha ottimi contatti con entrambi i lati spiega i limiti di questa idea: “Innanzitutto gli italiani non l’hanno promossa, ma ne hanno semplicemente parlato con Haftar, ma non è questo il punto. Il fatto è che Haftar non si fida. Non crede in Serraj come un interlocutore in quanto lo vede ostaggio delle milizie tripoline, e non le milizie tripoline al suo servizio. Inoltre mandare un suo uomo a Tripoli (sede del governo onusiano Gna, ndr) la reputa un problema di sicurezza, proprio per via della presenza di molte componenti ostili. Poi c’è da vagliare proprio come e se queste componenti ostili a Haftar accetteranno mai un premier della Cirenaica indicato da lui. E infine c’è da pensare l’effetto-Saleh: Haftar non ha intenzione di farsi sorpassare da qualcun altro soprattutto adesso che le condizioni lo hanno riportato a galla”. Il rischio per il signore della guerra è scomparire, perché se le armi sono ferme potrebbe aver poche alternative da giocare: un eventuale premier cirenaico potrebbe certamente sostituirlo come interlocutore agli occhi della Comunità internazionale. Ma non è detto che questa non possa essere un’exit strategy valida, valutabile per i suoi sostenitori esterni come via per farlo uscire a testa alta dal pantano libico che ha contribuito a creare.

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