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Biden e il Clima. Come l’ambiente influenzerà le relazioni estere Usa

Se il Clima può diventare un vettore per la politica estera statunitense, allora Joe Biden, che porterà il tema al centro della sua agenda, ha molti spazi per rimettere gli Usa al primo posto nel mondo – ma senza dimenticare i problemi politici che potrebbe trovare in casa

Secondo quanto noto, il presidente statunitense eletto, Joe Biden, nel suo primo giorno nello Studio Ovale firmerà almeno quattro ordini esecutivi con cui invertire le policy decise (sempre con la stessa formula) dal suo predecessore. Tra queste decisioni immediate quella più rumorosa riguarda il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo sul Clima di Parigi. L’intesa, nota come Cop21, era stata raccontata da Donald Trump come uno dei terreni in cui applicare il concetto America First che lo aveva portato alla Casa Bianca. Secondo la sua narrativa l’accordo complicava la strada per lo sviluppo statunitense; gli Usa dovevano pagare più degli altri; la Cina (prima tra gli inquinatori) ne usciva potenziata; il mondo decabornizzato che Parigi prevedeva era deleterio per gli interessi degli stati americani più legati alle energie fossili.

In sostanza, per Trump l’accordo sul clima era uno dei prototipi di un sentimento politico orientato alla multilateralità e al globalismo che lui, e prima di lui ideologi come Steve Bannon, aveva da sempre combattuto. E per spingere questa sua narrazione politica non lesinava uscite anti-scientifiche, negando il Climate Change e scherzando sul riscaldamento globale quando parlava pubblicamente in certi periodi di freddo. Biden intende cambiare da subito questa narrazione, ma sopratutto intende farne sostanza – anche di valore politico, basta pensare che ha già nominato un inviato speciale per il Climate Change, e la scelta è ricaduta sull’ex segretario di Stato, e collega nell’amministrazione Obama, John Kerry. Il suo approccio alle problematiche ambientali e climatiche sarà quello più diretto, ampio e competente che una presidenza americana abbia mai affrontato.

Ed è anche dalla scelta di nomi come Kerry che comporranno il team-Clima di Biden che si evince la traiettoria. Tutte persone in grado di affrontare il problema da diverse sfaccettature, elevandolo a questione di relazioni internazionali, e in grado di gestire questioni complesse in cooperazione tra le diverse agenzie governative. Un esempio: non a caso l’ex Foreign Service Officer americano Edward Stafford ha citato l’addendo clima nella formula con cui gli Usa potrebbero ritrovare equilibrio nelle relazioni con la Turchia. L’esperienza di azione e cooperazione degli elementi del team Biden sarà cruciale anche perché l’amministrazione Trump ha svuotato molte delle agenzie che riguardano il clima, l’ambiente, l’energia, di molti uffici, competenze e risorse.

L’aspetto normativo potrà essere spinto dal doppio controllo congressuale da parte dei Democratici (solitamente molto più inclini a certi argomenti dei Repubblicani). E il lavoro da fare per i legislatori c’è: secondo un’analisi delle facoltà di Legge di Harvard e Columbia, a novembre 2020 erano 84 le leggi climatiche cancellate dai trumpiani, alcune delle quali – sottolinea uno studio del Rhodium Group – considerate “major policies“. Parliamo per esempio dell’annullamento di normative sulle riduzioni di gas serra, l’inquinamento prodotto da centrali elettriche (a carbone in particolare, dopo che Barack Obama spingeva per la sua eliminazione), le emissioni da autoveicoli. Questioni anche complesse, per cambiare le quali potrebbe non bastare un ordine esecutivo, ma processi giuridici più lunghi.

E anche su questo Biden incontrerà opposizione politica settaria e chiusure frutto della polarizzazione, ma dalla sua parte troverà una serie ampia di municipalità che hanno comunque deciso di andare avanti sull’approvazione di normative per il controllo ambiente – con i sindaci e le città che hanno superato in modo indipendente i blocchi imposti dall’amministrazione Trump. Da qui a (ri)prendere la guida globale sul tema Clima non sarà facile, però, anche perché Biden dovrà dedicarsi in modo molto vigoroso alla lotta alla pandemia – con tutti i contagi sociali ed economici – e al ristabilire un clima stabile all’interno di un paese che ha dimostrato di essere diviso, anche mostrandosi agli occhi del mondo con la violenta sceneggiata di Capitol Hill. In questo, l’Ambiente e il Clima sono un passaggio di livello superiore che proprio per tale ragione può trovare problematiche.

Però, se all’interno del paese trova sul suo stesso lato Millenials e della Z-generation tra le classi demografiche e sociali che vedono il cambiamento climatico come una quesitone prioritaria (con un amento della sensibilizzazione tra chi ne percepisce i rischi anche sotto il profilo della sicurezza), all’esterno trova una disponibilità. Questo cambiamento nella discussione in corso in America si rispecchia infatti in altri luoghi del mondo, come fa notare in una recente analisi, Brian Katulis del Center for American Progress. Un altro ambito di quello che stiamo chiamando “Effetto Biden”. Katulis per esempio racconta di quando Fareed Yasseen, ambasciatore dell’Iraq negli Stati Uniti, gli ha confidato di essere preoccupato di come il Climate Change stese già trasformando il suo paese.

Yasseen sul tema ha una certa sensibilità, è vero, dato che alla fine degli anni Novanta ha lavorato con il Segretariato delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ma parla anche perché il suo paese sta affrontando già le realtà pratiche connesse al tema. E, racconta Katulis, che per questo l’ambasciatore vede in Joe Biden e nel suo team una speranza, nonché la possibilità che le questioni connesse al clima rappresentino una via per approfondire le relazioni USA-Iraq a lungo termine. La faccenda non è relativa, se si considera l’importanza dell’Iraq negli equilibri mediorientali, e le difficoltà che gli americani stanno trovando adesso nel paese molto influenzato dalle politiche espansionistiche aggressive dell’Iran.

Quello che dice Yassen nei confronti dell’Iraq, o quello di Stafford nei riguardi della Turchia, oppure ancora quello che riguarda la sicurezza idrica in regioni come l’Egitto o il Mekong, non dovrebbero sorprendere. L’anno scorso, John Podesta (storico stratega democratico) e Todd Stern (inviato speciale per il clima della presidenza Obama) hanno delineato un framework per come integrare al meglio il clima nella politica estera americana, il piano che Alan Yu ha tracciato (sempre sul CAP) su come l’America può ripristinare la sua leadership globale nella politica climatica che va ben oltre il rientro rapido degli accordi di Parigi sul clima.

E tra queste discussioni in corso su come la questione climatica possa fare da catalizzatore delle relazioni internazionali americane ci rientra chiaramente anche il rapporto transatlantico, con Biden che dovrebbe tornare a privilegiare le relazioni (multilaterali) con l’Europa rispetto al clima di competizione creato da Trump, e Washington dovrebbe trovare a Bruxelles – sul Clima, ma non solo – comunione di interessi, intenti a valori. Il 21 gennaio, ore 6pm (CET), Formiche ha organizzato su questo tema un panel a cui parteciperanno Podesta, Stern, Mauro Petriccione dell’EuClimateAction, e il presidente dell’Ispra Stefano Laporta. Titolo eloquente: “Europa e Stati Uniti: come cambia il clima”.

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