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Il “nuovo” Recovery è il nulla cosmico. Ma la crisi è un’assurdità. Parla La Malfa

Intervista all’ex ministro del Bilancio, oggi economista e animatore della Fondazione Ugo La Malfa. La bozza uscita da Palazzo Chigi è peggio della prima: niente progetti, niente governance e zero idee. Mi chiedo cosa racconteremo all’Europa. L’Italia se vuole proteggere le sue imprese faccia buona politica industriale. Renzi? Qualcuno mi spieghi il senso di aprire una crisi adesso

Il nulla, cosmico. Il Recovery Plan uscito dalla agitata notte di Palazzo Chigi, preludio di una crisi di governo (forse) è la versione brutta del primo Recovery, quello di metà dicembre. Peccato, dice a Formiche.net il più volte ministro del Bilancio, Giorgio La Malfa, oggi economista e animatore della Fondazione dedicata la padre, Ugo. Poteva essere l’occasione per infilare nelle decine di pagine del piano qualche progetto realistico. E invece no, per l’ex ministro non c’è nulla, o quasi, da fare.

La Malfa, il Recovery Plan appena licenziato dal Consiglio dei ministri la convince?

Assolutamente no. E gli spiego perché. La bozza di dicembre conteneva una grossa parte di progetti e soprattutto un barlume di governance. Adesso sono sparite ambedue le cose, sia i progetti sia la governance. Mi spiega che cosa c’è da salvare?

L’Europa aspetta un piano d’azione da parte dell’Italia. Possibilmente credibile.

Questo è un problema. Perché se dovessimo basarci su quello che abbiamo oggi, allora le direi che non abbiamo un bel niente. Un documento vuoto, che non è un programma, un piano, solo un insieme di linee programmatiche. Vuole un esempio?

Perché no.

Nel documento si parla di centrali eoliche. Ma senza dire dove. Si dice solo che si faranno delle centrali e basta. Ma vogliamo dire dove e come e con quali soldi e chi le realizza? Ecco, è tutto generico, vago.

Allora abbiamo un problema, La Malfa. Bruxelles aspetta entro aprile non linee programmatiche ma idee chiare e progetti precisi. Come la mettiamo?

Questo bisogna chiederlo al governo. Mi pare che si stia cercando di scaricare sulla crisi politica in atto, le responsabilità delle mancate decisioni. Come a dire, siccome c’è la crisi politica allora non possiamo fare un buon Recovery Plan. Ma il risultato non cambia: ad oggi non abbiamo un documento convincente.

Parentesi politica. Tra Matteo Renzi e Conte sono giorni di guerriglia. Lei che dice?

Mi chiedo quale senso abbia aprire una crisi in questo momento. Voglio dire, non abbiamo un progetto per i fondi europei, rischiamo di buttare 220 miliardi e ci prendiamo il lusso di aprire anche una crisi di governo? Mi pare assurdo.

Torniamo al Recovery Plan. Ad oggi, 13 gennaio non sappiamo chi e come gestirà questi fondi. Lei cosa propone?

Non possiamo certo pensare di dare decine e decine di miliardi a questa Pubblica amministrazione che da sola non ce la può fare. Sarebbe necessaria una grande riforma delle amministrazioni, poteri speciali e poi pensare a gestire le risorse. Il problema è che noi sappiamo che questi soldi dall’inizio di luglio. E ad oggi non abbiamo una governance. Sono sette mesi, non sette settimane.

La Malfa, siamo messi male allora…

Sì. Perché stiamo perdendo tempo. Dimenticandoci che serve un’Italia che deve guardare all’Europa e non ai Palazzi. Questo è il cambio di paradigma.

Parliamo di politica industriale. L’Italia e i suoi asset sono spesso preda di grandi gruppi stranieri. Non sarà mica perché non facciamo politica industriale da anni?

Sì, è così. L’assenza di una politica industriale è la premessa a questo tipo di operazioni industriale. Però vede, torno al problema. Lo stesso Recovery Plan poteva essere l’occasione per fare della sana politica industriale, rimettendo al centro l’interesse nazionale. Invece no, ci siamo ubriacati di delirio di onnipotenza solo a pensare di avere 200 miliardi sul piatto d’argento. Ma cosa facciamo per proteggere il nostro sistema industriale?

Lei era ministro quando c’era l’Iri. Erano anni diversi eppure c’è chi oggi invoca ancora quel tipo di istituzione a protezione delle nostre industrie…

L’Iri era una cosa seria. E soprattutto non era espressione di spreco di denaro, come accaduto con altri enti. Oggi c’è un problema: nel fare politica industriale dobbiamo distinguere tra quello che serve alle nostre imprese strategiche e quello che invece è solo spreco. Esempio. L’Iri non era assistenza, come la Gepi (la ex società per le partecipazioni industriali, nata nel 1971 e dismessa nel 1997, ndr) ma vero investimento. Ecco, se oggi vogliamo proteggere le nostre imprese usciamo dalla logica del salvataggio che fa rima con spreco, come faceva la Gepi. Ma imperniamo una nuova politica industriale su un’istituzione sana e che produca ricchezza e crescita.

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