Anche la Putin Generation scende in strada contro l’unico presidente conosciuto. Le attività di Navalny muovono interesse; il Cremlino rischia che queste manifestazioni si trasformino in voti contrari e si arrocca. La Russia come primo test per le relazioni transatlantiche nell’era Biden, con le dinamiche interne che diventano fattore di politica internazionale
“Le vicende politiche e perché no umane di Alexei Navalny hanno smosso qualcosa in Russia perché si inquadrano in un doppio momento delicato, le elezioni della Duma nel più breve periodo e la successione di Vladimir Putin nel lungo termine. Il potere putiniano non cadrà per Navalny e per le manifestazioni, anzi queste provocheranno una reazione, una chiusura ulteriore, ma tutto quello che accade espone le debolezze del Cremlino davanti a un popolo che ribolle e dunque, visto il ruolo della Russia, rappresentano un interesse internazionale”. Un diplomatico europeo commenta così, chiedendo a Formiche.net di restare anonimo, la situazione in Russia.
Sabato 23 gennaio ci sono state grosse proteste, con migliaia di manifestanti scesi in strada per sostenere Navalny, ma molto di più per mostrare il proprio rancore – o forse scoramento – nei confronti di Putin. Un leader che aveva promesso, attraverso una narrazione spinta, il ritorno di fasti da impero a Mosca, e che invece si trova dopo decenni di mandato incastrato tra un’inesistente successione e una crisi economica profonda, inasprita da quella sanitaria (enorme, stando a numeri non ufficiali) prodotta dal Covid.
Se il riflesso aggressivo del potere russo era prevedibile, nelle manifestazioni c’è un elemento di novità. La legiferazione spinta della Duma da tempo sta creando nuove e più stringenti regole per il controllo del dissenso, con le persone fisiche che sono diventate perseguibili come “agenti stranieri”, anche come forma di sostegno della narrazione sulla costante interferenza del nemico su quando succede nel paese, proxy retorico tipico dei sistemi autoritari. Contemporaneamente, la camera bassa sta pensando alla campagna elettorale, anche perché Russia Unita dovrà ottenere la maggioranza assoluta, lontana al momento visto che i sondaggi più recenti la danno al 30 per cento.
Ed eccola la (relativa) novità che rappresenta il problema: i voti. Quella che gli esperti chiamano la “generazione Putin” (la fascia demografico-sociale tra i 17 e i 25 anni) è scesa in strada e non è restata ferma, afflitta da una sperata (da Putin) abulia figlia dei tempi. Un problema per il presidente, perché si tratta di cittadini che hanno conosciuto solo e unicamente Putin come capo del Paese, e se anche loro decidono di protestare – sfruttando la canalizzazione delle opposizioni prodotta da Navalny, dal suo caso e dalle sue attività – allora significa che la tenuta è in fase di seria sofferenza. Rischio ulteriore è che dalla piazza si passi alle urne, con questi votanti che vanno unite ai trentenni (maggioranza relativa dei manifestanti), e per questo la Duma si sta attivando in una forma di auto-preservazione.
Soprattutto se si considera che non solo Mosca e San Pietroburgo, ma anche dozzine di altre città provinciali – dal Pacifico al Tatarstan – hanno visto sabato migliaia di persone scendere in strada. Ventenni e ragazzini compresi. Luoghi in cui Navalny, dopo non aver sfondato per anni, recentemente aveva raccolto successi. Come in Siberia: stava tornando da un viaggio politico-elettorale nella regione quando fu avvelenato in agosto, in quello che è sembrato un tentativo scomposto dei servizi segreti russi di eliminarlo.
Scomposta come la reazione di Putin, che si è trovato praticamente costretto – dopo anni in cui evitava di nominarlo – a rispondere all’ultimo attacco lanciato dall’attivista: quel palazzo “non è mio e di nessuno dei miei parenti” ha replicato il presidente a un’inchiesta condotta dall’associazione anti-corruzione di Navalny su una proprietà enorme sul Mar Nero, un palazzo imperiale che sarebbe intestato a prestanome ma con Putin vero fruitore. L’inchiesta si è portata dietro una reazione monstre: uscita subito dopo il rientro in Russia di Navalny e conseguente arresto, ha raggiunto cento milioni di visualizzazioni.
Il video con cui viene raccontato il potere decadente di un presidente che sembra un sovrano assoluto si apriva con la richiesta di partecipare alle proteste di sabato 23 gennaio, e forse qualche esito – visti i risultati – l’ha prodotto. La desacralizzazione di Putin, il suo potere mostrato ammuffito e incrostato al paese, gli sfarzi paragonati alle condizioni di vita della popolazione in peggioramento costante, sono elementi che riguardano tanto il lavoro di Navalny quanto un generale sentimento di scontento che monta nel paese – e che permette a Navalny, catalizzatore (in passato anche considerato utile al potere putiniano) di diffondersi in sacche che non lo amano.
Sul Financial Times arriva dalla penna di Gideon Rachman la benedizione definitiva a Navalny – e un colpo duro per Putin e per tutti gli autoritarismi. Rachman non è un giornalista qualunque, è il capo dei commentatori di affari internazionali del più autorevole quotidiano del mondo, che tratta la Russia sempre con attenzione e rispetto. La situazione è affrontata con estremo realismo (ciò che la professionalità richiede, ndA) e valuta quasi impossibile il successo di Navalny, che dovrà affrontare anni e anni di prigione – e non a caso lui stesso ha già fatto sapere pubblicamente, sui suoi account social, di non essere intenzionato al suicidio, ossia ha messo le mani avanti su un suo possibile destino: la morte in carcere.
Rachman valuta anche la morsa sulle libertà e la stretta sul potere che sta arrivando; valuta la possibilità che la moglie dell’attivista, Yulia Navalnaya, prenda il suo posto in una sorta di remake di quanto visto in Bielorussia dove Svetlana Tikhanovskaya è diventata la candidata contro l’assolutismo di Aleksander Lukašenka dopo l’arresto del marito da parte del regime. Lei insieme ad altre due donne e alle migliaia scese in piazza sono al momento il simbolo delle proteste che durano da mesi contro le ultime, ennesime elezioni truccate dal batka di Minsk. Un’evocazione che per Putin significherebbe per altro una deleteria saldatura tra la situazione di Mosca e quella della Russia Bianca.
Infine Rachman valuta l’effetto Biden sul Cremlino. Il presidente democratico detesta la violazione dei diritti umani e delle libertà democratiche, e differentemente da Donald Trump è pronto al rischio ingerenza pur di dire la propria su certe situazioni (come spiegava su queste colonne Germano Dottori, Limes). Qualcosa di intollerabile per Putin, spiegava sempre su Formiche.net Eleonora Tafuro Ambrosetti, Ispi, che porterà Mosca a tenere in prigione Navalny, con l’evidente rischio di trasformarlo in un martire: ma Putin difficilmente può cedere e farlo diventare un vincitore con una scarcerazione richiesta a gran voce da tutto l’Occidente.
Ora, il punto è di nuovo centrato dal Financial Times, il cui Editorial Board firma un pezzo di indirizzo per chiedere che il caso Navalny – sottinteso: tutto quello che bolle sotto alla vicenda dell’attivista – stimoli una strategia comune per le forze occidentali: “Come con la Cina (su cui FT s’è già espresso, ndA), è vitale per l’amministrazione Biden avere un approccio comune con gli alleati. Se la Cina è senza dubbio la minaccia più grande a lungo termine, la Russia lo è a breve termine”.
Un richiamo alla compattezza che riguarda anche l’Italia, che da sempre gioca in modo elusivo sul dossier russo e che adesso dovrà muoversi tra le pressioni di Joe Biden – espresse anche nella telefonata a Putin di martedì 26 gennaio – e le intenzioni dell’Ue di procedere con sanzioni pesanti contro gli interessi russi se Navalny non tornasse libero. Sempre che le mosse di Bruxelles non si fermino alla retorica: il tema Russia è un test, primo e profondo, sui rapporti transatlantici nell’era Biden, e anche per questo le volontà della Putin Generation diventano un fattore di interesse internazionale.