Tecnologia, commercio, Via della Seta, tensioni nel Pacifico. L’amministrazione di Joe Biden sceglie la continuità nei rapporti con il rivale strategico cinese. Ma potrebbe anche essere più dura di Donald Trump. L’analisi di Paolo Alli, nonresident Senior fellow dell’Atlantic Council e già presidente dell’Assemblea generale della Nato
Come previsto dalla maggior parte degli analisti di politica internazionale, l’amministrazione di Joe Biden manterrà alta la guardia rispetto alla aggressività commerciale e geopolitica di Pechino, nonostante la pandemia l’abbia comunque visibilmente rallentata, costringendo Xi Jinping a dichiarare un cambio di rotta.
Dimostrando ancora una volta la sua grande capacità di resilienza, il leader cinese ha infatti immediatamente spostato l’asse dell’azione verso lo sviluppo del mercato interno, che ancora offre immense potenzialità, soprattutto a causa della necessità di ridurre l’enorme squilibrio ancora esistente nello sviluppo tra le grandi aree urbane e il resto del paese.
La narrativa di Biden sarà certamente meno violenta di quella di Trump, forse ammorbidirà la politica dei dazi, ma non lascerà molto spazio a reali ripensamenti circa la necessità di arginare l’espansionismo cinese, che la gran parte degli americani guardano con crescente sospetto, insieme alle diffidenze, ampiamente cavalcate da Trump, sorte a seguito della diffusione del Covid.
La maggiore sensibilità del nuovo presidente e del suo partito per il tema del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale non potrà non far mettere l’accento, a livello diplomatico e commerciale, sulle palesi violazioni in atto da anni da parte di Pechino nel Mar Cinese Orientale e Meridionale e del non meno spinoso tema, emerso in tempi più recenti, del rispetto delle libertà personali, palesemente messo in discussione ad Hong Kong, ma non solo.
In questo quadro è d’obbligo una osservazione che riguarda il grande accordo Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership) promosso dalla Cina e recentemente sottoscritto da altri 14 Paesi dell’estremo oriente.
Esso costituisce il più grande patto commerciale esistente oggi, che vede coinvolto il 30% della popolazione e del Pil mondiale. Il dato più eclatante è la presenza, in questo accordo, di quattro Paesi tradizionalmente legati al blocco occidentale e agli Stati Uniti: Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
Questi stati hanno aderito ad una iniziativa che vede come dominus proprio la Cina, nonostante la evidente aggressività di Pechino nella regione, sia in termini territoriali che commerciali. Non può non nascere il sospetto che ciò sia conseguenza dell’abbandono della regione da parte di Trump, che si è solo preoccupato del dossier nordcoreano, per lui fonte di notevole visibilità mediatica, pur non costituendo certo il principale problema di uno dei più complessi e delicati quadranti dell’intero pianeta.
Il fatto che l’accordo Rcep fosse stato predisposto da tempo, quando la vittoria di Trump appariva sicura, non può non far pensare che esso costituisca un segnale del disagio di Giappone e Corea del Sud nei confronti dell’abbandono da parte del tradizionale alleato statunitense. D’altra parte, la sapiente maestria cinese aveva, evidentemente, preparato una ulteriore polpetta avvelenata per il tycoon, prevedendone, appunto, la rielezione.
Le dichiarazioni ufficiali cinesi sottolineano la natura puramente commerciale dell’accordo: la stessa narrativa è stata impiegata per anni a proposito del progetto Belt and Road, la nuova Via della seta, che oggi invece appare nella sua reale e vastissima portata geostrategica, pur se la pandemia ne rallenterà inevitabilmente la realizzazione.
L’accordo Rcep costituisce, in realtà, la prosecuzione verso est della Via della seta: l’obiettivo delle due operazioni è l’aumento dell’influenza di Pechino verso l’occidente, nel tentativo di isolare gli Usa da est e da ovest.
Nonostante l’esito delle elezioni sia stato diverso da quello che Xi probabilmente si aspettava, l’accordo rappresenta un brutto segnale anche per Biden. Sarà da vedere se e in che modo il nuovo presidente affronterà questo spinoso dossier e se avrà la consapevolezza che Rcep e Belt and Road rappresentano il vero rischio in termini di affermazione globale della Cina.
Egli avrà certamente la possibilità di contrastare queste spinte espansionistiche di Pechino, specie unendo gli sforzi con l’Unione Europea e – magari – ingaggiando l’India in questa sfida. Potrebbe tentare di convincere i propri storici alleati del Far East a stoppare o depotenziare l’accordo Rcep, la cui entrata in funzione è prevista tra due anni, dopo la ratifica da parte di tutti i Paesi firmatari: bloccare alcune di queste ratifiche, ad esempio quelle di Tokyo e Seul, potrebbe essere un mezzo per ridimensionarne la portata.
Un rinnovato protagonismo occidentale nel Far East contribuirebbe anche a limitare l’affermarsi di quello che definisco il multilateralismo alla cinese, cioè uno schema nel quale tutti stanno attorno al tavolo ma al centro del tavolo stesso c’è Pechino a dare le carte agli altri.
Resta da capire cosa accadrà in Corea del Nord, dove l’imprevedibilità del dittatore Kim-Jong-Un ci ha abituato ormai a non fare previsioni.
Il Paese, tuttavia, appare in ginocchio a causa della pandemia che ne ha ulteriormente fiaccato la già debolissima economia. In questo scenario, forse, continuare l’azione del bastone e della carota iniziata da Trump potrebbe giovare a Biden, anche se il vero problema è, ancora una volta, nel ruolo tanto decisivo quanto sottaciuto che ricoprono Cina e Russia.
Quinta puntata di una serie di approfondimenti sull’amministrazione Biden-Harris di Paolo Alli