Con un governo sostenuto da una maggioranza più ampia e con un cambio della guardia al Tesoro, la fusione caldeggiata dal Pd e dal ministro Gualtieri potrebbe subire dei ritardi. Il rebus dei fondi e l’ombra delle perdite di Mps e Unicredit
Quando la politica mette piede in banca, è facile sparigliare le carte in poco tempo. Se poi cade un governo e se ne fa un altro, magari con una nuova maggioranza, allora il banco rischia addirittura di saltare. Naturale dunque pensare che un governo a guida Mario Draghi possa imprimere improvvise accelerazioni, frenate o sterzate al risiko bancario.
Come noto da diverso tempo l’Europa, ma anche la stessa vigilanza Ue (la Bce) e nazionale (Bankitalia) sostengono la necessità per gli istituti di medie e piccole dimensioni di aggregarsi. Lo impone un mercato in grande cambiamento, lo tsunami di sofferenze all’orizzonte e pronto ad abbattersi sui bilanci (qui l’intervista di pochi giorni fa all’economista Marcello Messori e qui l’intervento ieri del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, in commissione Banche) e soprattutto il sopraggiungere di numerosi competitor della finanza tradizionale, fintech in testa. Il comparto bancario italiano è in fermento da tempo. Ma c’è un baricentro preciso delle possibili operazioni di fusione bancaria: Monte dei Paschi.
LE NOZZE DI SIENA (MA CON CHI?)
Il 2020 è stato l’anno della grande scommessa sulla fusione tra Mps e Unicredit. Il Tesoro, azionista di Rocca Salimbeni al 68%, ha pattuito con la Commissione europea l’uscita dal capitale entro il 2021, aprendo la strada a un ritorno della banca sul mercato ma non prima di aver individuato il partner più giusto per Siena. Grande sponsor delle nozze con Unicredit, nonostante la contrarietà del M5S da sempre sostenitore della natura pubblica di certe banche, è l’attuale ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri (Pd). Non è un caso che dopo la scomparsa di Fabrizio Saccomanni, alla presidenza di piazza Gae Aulenti sia arrivato proprio un dem, nonché ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.
Ma se finora le nozze non sono state celebrate è per almeno due fattori. Primo, le resistenze dell’ormai ex ceo Jean-Pierre Mustier, il manager francese di ferro che proprio sul dossier Mps è scivolato, lo scorso novembre. Ufficialmente venne meno la convergenza sui piani della banca tra ad e cda, ma i dubbi di Mustier su Mps potrebbero aver avuto il loro peso. E poi c’è una certa contrarietà dei fondi, azionisti di Unicredit (BlackRock in testa) che non vedono di buonissimo occhio la fusione. Ora il pallino sta per passare ad Andrea Orcel, ceo designato di Unicredit (il 15 aprile è in programma l’assemblea che ratificherà Padoan e sancirà l’addio di Mustier, che firmerà il suo ultimo bilancio), il quale però non ha sciolto ancora le riserve.
Ed ecco che entra in gioco la politica. Con un probabile addio di Gualtieri al Mef, in favore di un ministro scelto da Draghi, l’operazione Mps-Unicredit perderà di fatto il suo principale sponsor. Senza considerare che lo stesso Pd, motore dell’operazione, dovrà con ogni probabilità condividere la scelta della fusione con gli altri partiti imbarcati da Draghi. Lecito dunque pensare che l’aggregazione tra Unicredit e Mps possa finire in stand by. Una cosa è certa.
Draghi è un europeista puro (e da dg del Tesoro è stato protagonista della nascita di Intesa-SanPaolo, Banca Popolare e della fusione tra Unicredit e Capitalia) e il fatto che l’Europa spinga per un disimpegno pubblico da Mps, lo porterà quasi certamente a seguire la strada della partnership. Non è un caso che sulle nozze ci scommette a dire il vero anche il mercato visto che da quando Draghi ha ricevuto l’incarico da Sergio Mattarella, il titolo Mps è salito del 33%).
Ma non è detto che la sposa sia Unicredit. Perché ci sono almeno due variabili in campo. Primo, alcuni grandi fondi americani, come Apollo, avrebbero messo gli occhi su Mps, al punto da chiedere l’ingresso nella data room (la “stanza” virtuale con tutti i dati di una banca, inclusi quelli più sensibili). Ma altri investitori (Blackstone, Lonestar, Hellman & Friendman) sarebbero intenzionati ad avere accesso alla data room per esaminare i conti della banca. E poi non bisogna dimenticare gli altri attori protagonisti del risiko bancario, ovvero Bper e BancoBpm. La loro centralità è dimostrata anche dall’impennata dei titoli da quando Draghi è premier incaricato: +26% e + 17%.
PROFONDO ROSSO (BIPARTISAN)
Su qualunque matrimonio di Mps, incombono però i numeri impietosi del 2020. Ieri mattina l’istituto senese ha presentato alla comunità finanziaria il bilancio, chiuso in profondo rosso. Mps ha chiuso l’esercizio con una perdita netta di 1,689 miliardi, in peggioramento dai -1,033 miliardi del 2019. Il risultato è stato impattato da oltre 1,3 miliardi di componenti non operative e dalla revisione del valore delle Dta (340 milioni). Nel dettaglio, le componenti non operative negative includono 984 milioni di accantonamenti a fondi rischi e oneri e 154 milioni di oneri di ristrutturazione legati all’operazione Hydra e all’esodo del personale avvenuto nel quarto trimestre. Ma il problema del Monte dei Paschi è un altro.
E cioè che entro pochi mesi Mps deve portare a casa un aumento di capitale da 2,5 miliardi, per rafforzare il patrimonio minato, anche, dagli Npl e consentire l’uscita del Tesoro. Senza un partner in arrivo, l’aumento è inevitabile e servirà l’intervento dello stesso Mef, ha chiarito il ceo di Mps, Guido Bastianini. “Nel caso in cui la realizzazione di una soluzione strutturale non dovesse avvenire in un orizzonte di breve/medio termine, il capital plan prevede un rafforzamento patrimoniale di 2,5 miliardi che, se realizzato, è previsto avvenire a condizioni di mercato e con la partecipazione pro-quota dello Stato italiano, riguardo cui ha già confermato pieno sostegno”. Ma c’è un altro rosso, profondo. Quello di Unicredit, che sempre ieri ha comunicato al mercato una perdita netta di 2,8 miliardi dopo rettifiche su crediti da 5 miliardi per far fronte adeguatamente all’impatto economico attuale e futuro del Covid-19.
L’ALTRO RISIKO
Come detto, del risiko bancario fanno parte anche Bpm e Bper. E qui la partita è doppia, anche tripla. Due giorni fa il Messaggero ha riferito di un incontro tra l’ad di Bpm, Giuseppe Castagna, e il ceo di Unipol, Carlo Cimbri, avvenuto il 20 gennaio: al centro della discussione l’ipotesi di fusione con Bper (di cui Unipol è primo azionista con poco più del 15%). Sembra che Castagna voglia velocizzare l’operazione mentre Cimbri e Bper antepongono il completamento dell’integrazione degli sportelli acquisiti a valle della fusione Intesa-Ubi.
Per questo, un altro matrimonio possibile potrebbe essere quello tra Unicredit e BancoBpm. Anche a livello territoriale, l’operazione avrebbe senso, visto che Unicredit è forte al centro-sud mentre BancoBpm ha una solida presenza in Lombardia e al Nord, e ciò permetterebbe di creare un altro colosso bancario di livello nazionale alle spalle di Intesa.
Tra poche ore sapremo chi sarà il nuovo ministro del Tesoro, azionista principale di Mps e, volente o nolente, regista delle prossime nozze tra istituti italiani. Basterà il nome per capire in che direzione andrà il sistema bancario?