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Mediobanca e la diplomazia economica dell’Italia. Parla il prof. Farese

Mediobanca

Conversazione con Giovanni Farese, professore di Storia dell’economia presso l’Università Europea di Roma e Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund of the United States, autore del libro dal titolo “Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971”, edito dall’Archivio storico Mediobanca Vincenzo Maranghi

La storia dell’Italia repubblicana, dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, è profondamente legata agli avvenimenti e alle personalità che hanno caratterizzato negli ultimi 75 anni la vicenda di Mediobanca. Non solo dal punto di vista della politica interna, ma anche sotto il profilo internazionale. “Dal 1946 in poi Mediobanca ha svolto un ruolo fondamentale nel favorire il ritorno dell’Italia nella comunità economica internazionale”, ha commentato il professore di Storia dell’economia e Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund of the United States Giovanni Farese (qui un suo recente intervento per il nostro giornale), autore del libro dal titolo “Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971“, edito dall’Archivio storico Mediobanca Vincenzo Maranghi.

In questa video-intervista con l’Istituto per la Competitività (I-Com), il prof. Farese ha ripercorso i contenuti del volume e la storia dell’Italia di quei decenni attraverso la lente di ingrandimento rappresentata dall’attività soprattutto di carattere internazionale svolta dall’istituto fondato da Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia: “La storiografia fin qui si era concentrata sul ruolo che Mediobanca aveva giocato sul piano interno e domestico, sulla sua funzione di stanza di compensazione dei grandi interessi industriali.

Ma in un certo senso possiamo anche dire che la banca non è nata soltanto per esercitare il credito a medio termine a favore delle imprese, ma pure come strumento in senso lato ‘politico’, per ripristinare le relazioni economiche internazionali che ovviamente la guerra e ancora prima l’autarchia avevano interrotto”.

In quest’ottica  il libro costituisce il tentativo, riuscito, di rovesciare questo punto di vista: non la presenza del capitale straniero all’interno della banca ma, piuttosto, il ruolo che la banca stessa, anche attraverso il capitale straniero, ha giocato nell’internazionalizzazione dell’economia italiana. Il tutto in un contesto che fa riferimento a tre grandi processi: “La decolonizzazione, l’integrazione europea e, naturalmente, la guerra fredda. Gli estremi cronologici sono quelli degli accordi di Bretton Woods dal 1944 al 1971: la cornice monetaria internazionale all’interno della quale si colloca la grande stagione dello sviluppo dell’Italia post-bellica”.

Una stagione legata fortemente al nome di Cuccia, che prima di fondare Mediobanca aveva seguito negli anni Trenta un iter di formazione particolare e ricchissimo “con esperienze nel mondo bancario e finanziario a Parigi, poi a Londra alla Banca d’Italia e all’Iri di Alberto Beneduce, che ne diventò il suocero, dove lavorò insieme a un giovane Guido Carli“. Nel 1938 – ha osservato ancora Farese – Cuccia approdò alla Banca commerciale italiana, “un altro degli ambienti in cui si formava la classe dirigente italiana dell’epoca”.

Prima però era passato anche per l’Africa, “nel senso che tra il 1936 e il 1937 si era recato in Etiopia per conto del ministero degli Scambi e delle Valute. Un’esperienza che costituì una tappa molto importante anche per gli orizzonti che Mediobanca ebbe nel secondo dopoguerra”.

Più in generale, Cuccia apparteneva alla migliore classe dirigente italiana che si formò, appunto, in alcuni ambienti peculiari nel corso degli anni trenta: “Li ho nominati: certamente la Banca d’Italia, che anche nel secondo dopoguerra avrebbe costituito una fucina per la formazione della classe dirigente del nostro Paese, soprattutto negli anni di Guido Carli e del suo ufficio studi. E poi l’Iri di Beneduce, di Donato Menichella, del giovane Sergio Paronetto“.

Senza dimenticare ovviamente – ha sottolineato lo storico dell’economia – “la Banca commerciale italiana che, nonostante il fascismo, riuscì a mantenere la sua autonomia e indipendenza grazie al prestigio personale di Raffaele Mattioli  e al lavoro dell’ufficio studi che raccoglieva personalità di primissimo piano in quegli anni: basti ricordare i nomi di Antonello Gerbi o di Ugo La Malfa che nel secondo dopoguerra sarebbe diventato il riferimento politico di Mediobanca”.

Un ruolo, quello giocato dall’istituto milanese, che si è sviluppato fin dalle origini su tre fondamentali assi di politica internazionale, ricordati dallo stesso Farese nel titolo del suo volume. Ovvero, atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa: “Si guardò agli Stati Uniti nel momento stesso in cui nacque – correva il 10 aprile del 1946 – la banca. Anzi, già da prima, quando sorse l’idea, ovvero, come ricordava Raffaele Mattioli, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944”. I rapporti con gli Usa, dunque, come elemento costitutivo di Mediobanca: “In quei mesi gli equilibri della guerra stavano mutando, nel luglio del 1944 si svolse la conferenza di Bretton Woods. Cuccia e Mattioli parteciparono a una delle prime missioni inviate in America per ristabilire i rapporti”. Ossia, la missione Mattioli-Quintieri. “Per inciso lo stesso Quinto Quintieri sarebbe poi diventato componente del consiglio di amministrazione di Mediobanca”, ha rilevato in tal senso il professor Farese, che quindi ha aggiunto: “Successivamente questa proiezione si incardinò in quella grande visione politica di cui Alcide De Gasperi è stato sostanzialmente il fautore e il promotore”.

Ma quale fu in tal senso la direttrice principale sulla quale lavorò il primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana? Per rispondere a questa domanda, ad avviso di Farese, occorre attingere alle memorie di Guido Carli secondo cui “De Gasperi ebbe l’intuizione politica di stabilire legami economici così profondi con l’Occidente, ma in particolare con gli Stati Uniti, tali da impedirne la rescissione”. Da quel momento si creò un rapporto che Mediobanca avrebbe coltivato nel corso del tempo e che alla metà degli anni Cinquanta portato all’ingresso di soci esteri privati nel suo capitale: “Stiamo parlando innanzitutto di due importanti banche d’affari americane. E cioè Lazard e Lehman Brothers. Il che ha conferito a Mediobanca una posizione assolutamente particolare: la possibilità di accompagnare gli investimenti diretti esteri americani in Italia e quelli italiani all’estero”. Per non parlare della “rete di contatti e di influenza privilegiata attraverso il canale fornito da questi istituti e dalle altre banche europee che dal 1958 entrarono nel capitale della banca”. A quel punto la dimensione dell’istituto da atlantica divenne più propriamente euro-atlantica.

In quest’ottica l’Africa rappresenta una sorta di terzo lato del triangolo. Da una parte c’è il rapporto atlantico e dall’altra l’integrazione europea e il ruolo che Mediobanca, insieme ad altre banche, svolse per la formazione di un mercato europeo dei capitali. “Ed è interessante vedere come questa doppia relazione si ribaltasse poi, come si trattasse di un piano geometrico, verso l’Africa”, ha evidenziato il professor Farese, che poi ha spiegato: “A tal proposito giocarono un ruolo rilevante le esperienze personali di Cuccia, la sua visione politica e le sue idee economiche. Sotto quest’ultimo profilo l’idea di fondo è quella dell’Italia come economia aperta che esporta impianti e tecnologia e non solo e non tanto manodopera”.

Un Paese – ha osservato lo storico dell’economia – al tempo stesso povero e bisognoso di materie prime e, altresì, alla ricerca di possibili mercati di sbocco: “è molto interessante il lavoro che Mediobanca ha svolto in Africa. Si pensi che alla metà degli anni sessanta Cuccia già pensava di attribuire al porto di Trieste, in sostituzione o al fianco di Londra, il ruolo di hub per le materie prima provenienti dall’Africa”. L’idea che l’Italia dovesse costituire un ponte verso l’Africa: “E, si badi bene, non solo l’Africa del Mediterraneo a cui siamo da tradizione, per ragioni non solo geografiche, maggiormente abituati a pensare. Ma anche quella profonda, subsahariana”.

E così nel corso dei decenni ci sono state missioni e iniziative che hanno toccato Paesi come Guinea, Congo, Zambia, Zimbabwe e Tanzania: “In questa azione naturalmente l’istituto non è stato da solo, ma ha svolto comunque una funzione d’avanguardia, insieme ad altre banche italiane e straniere e a grandi imprese come Eni, Fiat, Montecatini, Pirelli, Necchi, Olivetti”.

Il tutto all’interno della cornice di politica estera fornita dai governi democristiani di quei decenni: “E’ interessante osservare come pur su posizioni a volte distanti – ad esempio in merito al peso dell’economia pubblica e dell’economia privata – in tema di politica estera economica si sia realizzata una sostanziale convergenza all’interno della classe dirigente del Paese sul ruolo dell’Italia nei confronti del Sud del mondo che in quegli anni conobbe la via dell’autonomia e dell’indipendenza dentro il più ampio fenomeno della decolonizzazione”.

La storia di Mediobanca, com’è naturale che sia, si è per lungo tempo incrociata con quella dell’Iri, innanzitutto per ragioni di natura azionaria: “Va ricordato che le banche che costituirono e fondarono Mediobanca – ossia, gli azionisti dell’istituto – furono le tre di interesse nazionale, a loro volta controllate dall’Iri. Stiamo parlando del Banco di Roma, del Credito italiano e della Banca commerciale”. Il ruolo di Giovanni Stringher e di Mino Brughera del Credit nella nascita di Mediobanca è stato spesso sottovalutato, “invece è importante”. In quel contesto – ha ricordato Farese – “Cuccia fu sempre molto attento a evitare il rischio di inframmettenze da parte dell’Iri in generale e dei partiti in particolare, soprattutto quando a cominciare dalla seconda metà degli anni cinquanta l’influenza delle forze politiche nella vita degli enti pubblici economici iniziò ad aumentare”. Confini ben delimitati all’interno però di una visione dei rapporti tra Stato e mercato che lo storico nel corso dell’intervista ha definito “laica”. Nel senso che “Cuccia come altri, al pari di Carli e non solo, appartiene a una generazione per la quale non è tanto la natura pubblica o privata del capitale a contare quanto piuttosto la gestione, che deve essere improntata a criteri di economicità e razionalità, così da favorire anche l’indipendenza e l’autonomia del management”.

Una vicenda, quella di Mediobanca, che su alcuni aspetti almeno mostra rilevanti ancoraggi con l’attualità politica italiana, a seguito dell’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi. E quindi, come ha osservato Farese, “il ruolo per così dire di supplenza che nelle relazioni internazionali hanno svolto in Italia alcune istituzioni tra cui anche la Banca d’Italia, così come la funzione storica che Palazzo Koch ha avuto nella formazione della classe dirigente”. Ma c’è di più perché la stagione politica che si è appena aperta chiama in causa gli obiettivi di lungo o di lunghissimo termine che la politica estera economica di un Paese dovrebbe darsi e perseguire nel tempo: “In un certo senso ciò che attende il nuovo governo nelle prossime settimane assomiglia in larga parte a ciò che avvenne nel secondo dopoguerra. Occorre ripristinare la fiducia dei mercati nell’Italia e per farlo occorre prioritariamente ristabilire il ruolo e la reputazione dell’Italia nel mondo”.

In quest’ottica lo storico ha sottolineato le parole pronunciate da Joe Biden qualche giorno dopo il suo ingresso alla Casa Bianca: “Mi ha colpito che nel suo primo discorso di politica estera il presidente degli Stati Uniti, enumerando i suoi più stretti amici, abbia citato nell’ordine Canada, Messico, Gran Bretagna, Germania, Francia, Nato, Giappone, Corea del Sud e Australia. Mancava l’Italia”. Questo è un esempio ma altri se ne potrebbero fare sotto il versante economico, come ha osservato Farese: “In pochi Paesi al mondo c’è stato un crollo degli investimenti diretti esteri nell’anno della pandemia come in Italia. Soltanto in Gran Bretagna e in Russia è stato equivalente mentre in Francia e Germania è stato inferiore. Sembrano dettagli ma tali non sono. C’è un nesso tra il ripristinare la fiducia dei mercati e il ristabilire il ruolo dell’Italia nel mondo”.

Sotto questo profilo la storia di Mediobanca aiuta a comprendere il ruolo fondamentale che le classi dirigenti con la loro credibilità possono avere nel mantenere e sviluppare quegli elementi di apertura del sistema di relazioni internazionali che sono vitali per il nostro Paese e per le sue imprese: “Naturalmente Draghi non ha soltanto la competenza, ma anche la credibilità e l’autorevolezza per riuscirci, in particolare nell’anno in cui l’Italia detiene la presidenza del G20”. Il passato ritorna, il futuro si costruisce insieme.



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