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Diplomazia, sanzioni e stretta all’export. La ricetta di Feldstein (Carnegie) contro i tecno-regimi

Joe Biden

Le democrazie si devono unire per affrontare la sfida dei tecno-regimi, a partire da Cina e Russia. Come? Diplomazia, sanzioni e controlli sull’export, risponde Steven Feldstein, senior fellow del Democracy, conflict and governance program presso il Carnegie Endowment for International Peace

Nel corso della sua audizione di conferma come segretario di Stato davanti alla commissione Affari esteri del Senato statunitense, Antony Blinken ha spiegato che c’è “un divario crescente tra tecno-democrazie e tecno-autocrazie”. Il nuovo capo della diplomazia statunitense ha anche dichiarato che “il presidente [Donald] Trump avesse ragione nell’adottare un approccio più duro con la Cina. Non sono molto d’accordo con il modo in cui ha affrontato la questione in una serie di settori, ma il principio di base era quello giusto, e penso che sia effettivamente utile per la nostra politica estera”. Una dimostrazione del fatto che ormai la Cina sia una preoccupazione bipartisan a Washington.

Formiche.net ne ha parlato con Steven Feldstein, senior fellow del Democracy, conflict and governance program presso il Carnegie Endowment for International Peace, uno dei più importanti think tank al mondo, presieduto dal diplomatico William J. Burns, scelto dal presidente Joe Biden come prossimo direttore della Cia.

Feldestein, come dobbiamo prepararci per affrontare le tecno-autocrazie?

Non ci sono risposte facili per determinare il modo migliore per affrontare le autocrazie che usano la repressione digitale come mezzo per sopprimere le loro popolazioni e mantenere il potere. In effetti, ho appena finito di scrivere un intero libro proprio su questo argomento.

The Rise of Digital Repression: How Technology is Reshaping Power, Politics, and Resistance uscirà ad aprile. Intanto, una risposta rapida?

Il metodo di repressione può aiutare a determinare le contromisure necessarie. Un governo che utilizza la sorveglianza mirata per spiare giornalisti e membri dell’opposizione (come l’Arabia Saudita) rappresenta una minaccia molto diversa rispetto a uno che utilizza modelli di sorveglianza basati sull’intelligenza artificiale per soggiogare un’intera popolazione (come la Cina). Tuttavia, servono alcuni principi di base.

Quali?

Primo: le democrazie devono unirsi e stabilire norme e standard comuni sull’uso accettabile delle tecnologie e su come affrontare gli abusi. Secondo: sulla base di questo accordo, dovrebbero quindi determinare le implicazioni politiche — per esempio, se concordano sul fatto che l’uso di malware per prendere di mira i giornalisti è inaccettabile, allora stabilire un regime di controllo delle esportazioni sarebbe un passo successivo appropriato. Terzo: in generale, vi è consenso sul fatto che alcuni Paesi stiano avendo un ruolo enorme nella proliferazione di strumenti “autoritari digitali”, in particolare Cina e Russia. Sarebbe opportuno che le democrazie riflettessero più attentamente sui modi per contrastare la diffusione di tecnologie avanzate dai loro Paesi ai leader autocratici, come l’uso di una combinazione di diplomazia, sanzioni e controlli sulle esportazioni.

Che ruolo possono giocare le Big Tech?

Dipende dal contesto. In un posto come Hong Kong, dove il governo cinese sta facendo pressioni sulle società tecnologiche occidentali per attuare restrizioni sui contenuti o fornire informazioni sui dati degli utenti, le Big Tech hanno l’obbligo di respingere queste richieste e di sostenere i principi internazionali dei diritti umani relativi alla libertà di espressione e la privacy degli utenti. Allo stesso modo, quando si tratta degli effetti deleteri della disinformazione su piattaforme come Facebook e Twitter che i leader autocratici usano come mezzo per manipolare le informazioni e mantenere il potere (o anche per fomentare e incitare alla violenza — per esempio, in Myanmar), hanno l’obbligo di ripensare drasticamente come vengono utilizzate le piattaforme e quali standard più elevati di responsabilità devono essere in atto.

Il pressing sulla digital tax e i recenti pacchetti Digital Services Act e Digital Market Act rischiano di rallentare il riavvicinamento transatlantico?

Penso che Dsa e Dma rappresentino un’importante spinta normativa per gli Stati Uniti e l’amministrazione Biden per mettere ordine in casa propria e iniziare ad affrontare i problemi relativi al potere di gatekeeper e alla disinformazione in modi molto più significativi. Che possa essere vista un’opportunità di riforma piuttosto che come un ostacolo al miglioramento delle relazioni transatlantiche?

Si parla molto di un forum di democrazie, idea rilanciata anche da Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden, che nel corso di un evento con i predecessori Robert O’Brien e Condoleezza Rice ha parlato di un “coro di voci” contro l’ascesa cinese. Il banco di prova potrebbe essere il G7 di quest’anno. Secondo un cablo diplomatico visionato da Bloomberg, il Giappone ha espresso preoccupazioni per la proposta britannica di invitare Australia, Corea del Sud e India al G7 in qualità di ospiti e coinvolgerli in questo forum. I membri europei del G7 — Francia, Italia e Germania — sembrano su posizioni simili. Come agire ora?

Penso che gli scopi e gli obiettivi di un allargamento anche temporaneo richiedano ulteriori chiarimenti. Soprattutto quando si tratta di un Paese come l’India, che potrebbe essere un importante contrappeso alla Cina ma risente delle sue tendenze illiberali, ci sono domande valide su come la sua partecipazione influenzerebbe la struttura del G7 esistente.

Trump sembrava intenzionato a coinvolgere anche la Russia, espulsa dal G8 dopo l’annessione della Crimea. L’idea è tramontata con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca?

Non vedo segnali che suggeriscono che il ritorno della Russia nel G7 sia allo studio della squadra di Biden.

Durante l’audizione in Senato il segretario Blinken ha confermato i principi della politica estera di Trump sulla Cina. Ma ha anche sposato l’impostazione del predecessore Mike Pompeo che ha definito il trattamento riservato dal governo cinese agli uiguri come “genocidio”. Che cosa dobbiamo attenderci da questa amministrazione sul fronte della libertà religiosa?

La risposta di Blinken — in disaccordo con le tattiche della precedente amministrazione ma d’accordo con l’approccio generale nei confronti della Cina — suggerisce che ci sarà continuità nella politica estera statunitense nei confronti della Cina. Il trattamento degli uiguri in Cina non è solo una questione di libertà religiosa: riguarda anche l’identità etnica e i tentativi sistematici da parte dei cinesi di soggiogare e imprigionare l’intera popolazione di una regione — ciò che il Dipartimento di Stato ha definito “genocidio”.

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